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Cheyenne (uno Sean Penn versione Robert Smith, cantante dei Cure) è una ex rockstar che vive a Dublino, al confine tra la depressione e la prigionia del proprio passato. Ha interrotto i rapporti con suo padre da oltre trent’anni, e quando questo muore ne eredita un diario ed un segreto: il vecchio, scampato all’Olocausto nazista, aveva trascorso gli ultimi cinquant’anni della sua vita alla ricerca del suo carnefice criminale nazista. Cheyenne dunque inizia un viaggio nell’America profonda, per provare a realizzare la volontà del padre nello smascherare un vecchio tedesco che forse è già morto.
Storia non originalissima? Già sentita o già vista? Può darsi. Se non fosse che stavolta a raccontarla è il genio superlativo di Paolo Sorrentino, che attraverso questa storia compie e fa compiere al suo personaggio un viaggio attraverso il cinema più alto, ma non solo. L’orrore dell’Olocausto fa da sfondo ad un racconto che è molto di più: è simbologia, è tecnicismo cinematografico, è perfetta integrazione tra musica (splendida) ed immagine. E’ un viaggio nella decadenza del mondo moderno, dove nessuno dice più di fare un lavoro ma tutti sono convinti di fare arte; è un viaggio nel passato di un uomo, che rivede il suo successo con grandi sensi di colpa per aver composto, in fondo, solo canzonette per ragazzi depressi ed un paio di loro si sono anche suicidati (memorabile questo sfogo davanti a David Byrne, cantante dei Talking Heads ed artista vero). E’ la maschera di un uomo rimasto adolescente, che vorrebbe toglierla per vedere cosa c’è nel mondo degli adulti; è una maschera fatta di cerone e rossetto, che nasconde il dolore e la consapevolezza che nella vita quasi sempre quel passaggio dall’adolescenza alla maturità non esiste, perché ci si trova all’improvviso dal dire ”vorrei che fosse così” al dire ”è andata così”.
Ma la sfida di Sorrentino stavolta va oltre, e si spinge fin dentro quell’impervio terreno che è la simbologia dell’immagine: terreno fatto di sabbie mobili, dove solo se hai capacità da vero artista puoi sperare di uscirne vivo. Il regista napoletano ce la fa, e non solo ne esce vivo, ma anche vittorioso regalandoci un capolavoro del quale dobbiamo essergliene grati. Perché è raro vedere riassunta in una scena la tragedia di un popolo, quello indiano, costretto dall’uomo bianco al silenzio e a vivere nel nulla assoluto delle riserve a loro destinate. O vedere e sentire il respiro del bisonte, anch’esso simbolo di uno sterminio subito, che osserva la casa del criminale nazista, simbolo di uno sterminio perpetrato. E’ raro vedere proposti in unica opera temi così importanti e complessi, come l’umiliazione dell’uomo sull’uomo, la vendetta, l’amore non ricevuto o non capito dei genitori, la difficoltà di comunicazione dei ragazzi giovani che spesso camminano su un mondo di macerie prodotte dagli adulti. E’ raro che ogni fermo immagine proposto in una pellicola sia di tale perfezione visiva e di significato spesso nascosto e non sempre immediato che si esce dal cinema già con la forte sensazione di dover rivedere il film perché sicuramente qualcosa ci è sfuggito o non lo abbiamo al momento saputo interpretare.
Omaggio al cinema, dicevamo: perché la sensazione è che la pellicola di Sorrentino riprenda alcuni fili tracciati e inevitabilmente interrotti del Wenders di Paris-Texas, per gli spazi vuoti che di quell’America profonda si riempiono di significati; del Tarantino di Kill Bill, per il tema della vendetta, del Milos Forman di Qualcuno volò sul nido del cuculo per l’immagine delle minoranze indiane; dello Spike Lee de La 25a ora nella ricerca del rapporto padre-figlio. E li porta avanti di un bel pezzo, quei fili, con un film assolutamente originale che è pezzo importante di quell’impossibile mosaico che tentiamo di costruire per comporre un’immagine mai abbastanza nitida della conoscenza.
Insomma, se ci fermiamo un minuto e ci guardiamo intorno, in questo preciso momento storico e da qualunque angolo lo vogliamo analizzare, ci sono davvero poche cose per le quali possiamo considerarci fieri di essere italiani: la cucina, le splendide città d’arte, il paesaggio del nostro belpaese. Non mi viene in mente molto altro, ma da oggi mi sento di comprendere, senza timore di smentita, un nuovo elemento di cui possiamo andar fieri e che dobbiamo e dovremo strenuamente preservare. Questo elemento si chiama Paolo Sorrentino, ed il nostro cinema, nella sue mani, può girare per il mondo intero senza dover provare complessi di inferiorità di fronte a nessuno.
VOTO: 4,5/5
Articolo del
18/10/2011 -
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