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Vedere la mentalità americana osservare una fede e una civiltà così opposta come quella Giapponese è una prova di grande coraggio. Valutare e giudicare con gli occhi degli occidentali, ricontestualizzare fatti di mezzo secolo fa nella realtà odierna e ricostruirli a piacere del cinema statunitense non è altro se non furbizia e ipocrisia: utile per indurre un pubblico medio a una partecipazione sentimentale degli episodi, rigorosamente visti con gli occhi del bellissimo Tom Cruise, prima alcolizzato poi magico e straordinario eroe, i cui valori diventano, ovviamente, i valori del mondo. Una bellissima fotografia e una certa cura dei costumi riempiono e gonfiano il film fino a farlo diventare epopea, solo che ne L’ultimo Samurai non è l’America a essere innalzata ma la libertà e l’unità del popolo, qualunque esso sia; con un originale tentativo di capovolgere il cliché holliwoodiano in cui il Presidente Americano salva il mondo, il regista Edward Zwick ci ripropone il solito, quanto nauseabondo, polpettone. Per cui si è speso tanto e che, per tanto, è stato pubblicizzatissimo. Ma i grossi scenari di guerra, le spettacolari campagne, l’eroe che da solo vince, inverosimilmente, cinque guerrieri non seducono più. A onor del vero bisogna dire che L’ultimo Samurai sta riscuotendo un notevole successo riempiendo le sale come pochi film. Il problema è vedere se la gente ha gli strumenti per valutare in maniera indipendente le opere a cui assiste o se è stata ormai narcotizzata dal fenomeno pubblicità/ cinematografi pubblicitari esponenti solo di grandi marchi. Le nostre sale sono infatti degne rappresentanti del cinema delle grosse case di produzione, ma sono del tutto, o quasi, sprovviste di esemplari russi, polacchi o, è proprio il caso di citarli, giapponesi; il nostro gusto è ammaliato dall’unica proposta che ci viene fatta, farcita di universalità e -pietosi- buoni ideali. Questo non toglie però che il buon cinema sia altro da l’etichetta da esporre. E’ il gusto di anni di lavoro, di esercizi e fatica, di studi e riflessioni, è il parere di esperti che il cinema lo hanno dentro, lo hanno fatto crescere e sviluppare, è il gusto di autorevoli studiosi e addetti ai lavori, (come il nostro Fellini per esempio), è la consapevolezza dell’arte, che pur essendo legata, per ovvi motivi, all’estetica non si nutre di apparenze, che non si fonda su vacui moralismi ma sulla coerenza di principi estetici e artistici che parlino, se lo si ritiene, di morale, senza per questo (s)venderla. La coraggiosa prova di quest’opera si sfascia così in un esercizio di retorica in cui tutto c’è fuorché la forza di osare, in uno sfarzoso scenario al cui impalcatura è evanescente.
Articolo del
20/01/2004 -
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