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Il racconto della vita di J. Edgar Hoover, carismatico quanto controverso direttore del Federal Bureau of Investigation per quasi un cinquantennio, dal 1924 al 1972.
Sono rimasti pochissimi i grandi narratori della storia americana e dei personaggi che l’hanno scritta, e il coriaceo Clint è certamente fra i due più capaci assieme a Scorsese. L’associazione di nomi viene quasi spontanea stavolta, col comun denominatore Di Caprio. E’ ormai dimenticata l’icona di ragazzo dal viso angelico nata con Titanic, ora siamo alle prese con un attore maturo e completo, capace di reggere sulle spalle ruoli di enorme spessore e peso come l’Howard Huges di qualche anno fa o, appunto, il sergente di ferro che ha plasmato l’FBI come oggi la conosciamo. Il suo potenziale non poteva quindi passare inosservato a Eastwood, che scrive un altro encomiabile tassello nella sua sconfinata carriera artistica.
J. Edgar è possente, affascinante, mastodontico sia per il tema trattato che per l’arco temporale coperto, eastwoodiano a più non posso. Lo sguardo navigato del vecchio Clint scava nel privato e nel pubblico di una figura emblematica che ha scritto pagine imprescindibili nella lotta al crimine americana e mondiale, senza troppo indugiare sul lato romanzato e attraversando trasversalmente mezzo secolo in poco più di due ore. Eastwood ci ricorda che la lotta al crimine non può non lasciare dietro di sé cadaveri e scheletri nell’armadio, e infatti ci mostra prontamente il lato oscuro, ai margini della legalità e della mentalità benpensante dell’epoca incarnato da un uomo figlio di un’educazione rigida impartitagli dalla madre, e ligio al dovere al punto da licenziare in tronco un sottoposto per dei baffi inappropriati. Che sia vero o meno questo particolare episodio poco importa, è sintomatico del metodo maniacale utilizzato da Hoover nel dedicare la propria vita, nel sacrificarla, a favore della ricerca della giustizia.
Il film per la prima mezzora può sembrare prevalentemente didascalico, ma di biografia si tratta ed inutile sottolineare l’inevitabile. I salti temporali (fotografati encomiabilmente come tutti i film del regista) sono incastrati alla perfezione e non fosse per il discutibile doppiaggio italiano del protagonista negli anni più recenti, nulla stride nel montaggio che mostra un attimo il J. Edgar ventiquattrenne e l’attimo dopo quello che detta allo stenografo le proprie memorie. E oltre al gran Di Caprio già menzionato in precedenza come non elogiare la recitazione metodica di Naomi Watts, già apprezzata negli abiti dell’epoca ai tempi di King Kong. Il tutto introdotto fin dalla prima inquadratura, marchio di fabbrica oramai, dalle delicate note di piano composte dal regista stesso.
Eastwood si guarda bene dal filmare un’agiografia che esalti il personaggio senza se e senza ma, tocca senza vergogna e con uno sguardo paurosamente imparziale tutti gli aspetti della sua vita fino alla sua neanche tanto presunta omosessualità. Tematiche estremamente forti come in passato fu per l’eutanasia, la pedofilia, la guerra, le falle nel sistema investigativo, per morte e l’apartheid sono sempre state trattate con maestria e un perfetto equilibrio fra freddezza e coinvolgimento che solo Eastwood sa dosare. Lo sguardo navigato ed esperto di un vecchio cacciatore che tante ne ha viste e tante ancora ne ha da raccontare.
E forse possiamo anche azzardare. Uno dei padri fondatori dell’America di oggi, della sua parte vera, è proprio quel vecchio cowboy di Clint Eastwood.
VOTO: 4/5
Articolo del
09/01/2012 -
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