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Preceduto e seguito da inevitabili polemiche è approdato sugli schermi italiani il film tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini. A dirigere la trasposizione cinematografica il regista Stefano Sollima, che ha già fatto molto parlare di sè per la ben riuscita serie televisiva Romanzo criminale (anch’essa tratta da un omonimo libro di De Cataldo ed anch’essa preceduta e seguita da molte polemiche). ACAB sta per “All Cops Are Bastards”, vecchio slogan anni ‘70 inventato dal movimento skinhead, e a differenza della serie televisiva, ove lo sguardo del regista era immerso nella mentalità criminale di quella Banda della Magliana che spadroneggiò su Roma dalla metà degli anni ‘70 per almeno un quindicennio, stavolta la telecamera viene spostata in un angolo visuale diametralmente opposto: quello di un reparto mobile della celere.
Molto attento, come già aveva dimostrato di essere per la sopra citata serie, allo sfondo storico su cui si muovono i personaggi, Sollima tira giù la visiera del casco da poliziotto, e attraverso le gesta di tre esperti celerini ai quali viene affiancata un recluta, prova ad immergersi nella melma di una società degradata culturalmente, socialmente, politicamente, eticamente. Terreno minato, ovvio, perché lì nessuno si salva: il confine tra i buoni e i cattivi, la differenza tra chi deve difendere lo Stato e le leggi e chi quelle leggi infrange, la distanza tra la società che dovrebbe essere civile e quelle frange di società che invece sono incivili per definizione, lì è tutto confuso, poco marcato, poco riconoscibile. Le differenze sono impercettibili. E nel bel mezzo di quel terreno minato ci sono loro, quei poliziotti (rigorosamente fascisti e razzisti) che sono quasi continuamente combattuti nel cercare una loro moralità che gli permetta di scindere almeno cosa sia giusto fare per se stessi e cosa sia giusto fare per un concetto più ampio di giustizia, di cui dovrebbero esserne garanti.
Film forte, potente: accusato, tra le tante polemiche, di un’apologia verso i poliziotti come fossero vittime. Critica a mio avviso non condivisibile, dato che l’immagine che emerge dei protagonisti mette spesso in rilievo le loro fragilità che si traducono in uno osceno spirito cameratesco, le loro paure che diventano violenza gratuita, i loro errori come fu quello della caserma Diaz per i fatti di Genova. Nè sembra ammissibile la giustizia sommaria e vendicativa della spedizione punitiva ai danni di un gruppo di teste rasate colpevoli di un attacco premeditato alle forze dell’ordine fuori dallo stadio Olimpico. Certo, non sappiamo quanto il tentativo di rendere il disagio del poliziotto che si trova sempre nel mezzo (tra sputi, insulti, coltellate, situazioni umane drammatiche da gestire come rimpatrio di immigrati o sgombero di case occupate) sia riuscito, dato che molti veri poliziotti hanno detto di riconoscersi in quei personaggi e molti altri no. Però come spettatori possiamo dire che quel disagio raccontato attraverso fatti di cronaca recenti apre interrogativi seri ai quali tutti dobbiamo sottoporci. Come cittadini di quella società civile, siamo di certo stati anche noi combattuti sulla corretta reazione da avere di fronte ad eventi che ci coinvolgono personalmente scatenando nostre istintive reazioni (emblematico l’intervento dei poliziotti protagonisti ai danni di un gruppetto violento di rumeni), spesso però contrarie ad una razionalità che deve diventare etica. E dunque la sensazione è che le risposte a quegli interrogativi non possano prescindere da una semplice considerazione: o ci si salva tutti insieme, poliziotti, immigrati, politici, cittadini comuni, o tutti insieme si affonda, lentamente ed inesorabilmente.
VOTO: 3/5
Articolo del
03/02/2012 -
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