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Le grandi aspettative di una storia universale di riscatto raccontata in un film candidato all’Oscar come Miglior Film sono state in gran parte deluse, così come quelle di chi credeva di vedere un film sul baseball. La realtà è un’altra: L’arte di vincere è un film sui manager del baseball, sul cinismo dell’economia e dell’americana versione del calciomercato.
Ci sono momenti di gioco, ma la maggior parte è sotto forma di footage televisivo, una tecnica che, se troppo sfruttata come in questo caso, toglie gran parte dell’impatto emotivo che gli homerun hanno di solito su grande schermo. Billy Beane/Brad Pitt non assiste alle partite, le ascolta alla radio, le guarda nei monitor: ed ecco qui il distacco emotivo. Nessun problema se la realtà è, in effetti, riportata correttamente. Il problema si pone nel tentativo della storia di emozionalizzare qualcosa che forse di emozione ne ha poca riguardo al gioco e molta riguardo il successo e il denaro.
L’arte di vincere è un dietro le quinte del baseball, un gioco di scambi, grafici, negoziazioni e formule matematiche in cui il matematico, interpretato da Jonah Hill (l’unico che qui si merita davvero la nomination agli Oscar) è il più emotivo di tutti mentre Pitt fa delle facce strane per tutta la prima parte del film e tira fuori la vera emozione solo nell’ultima inquadratura.
Certo, l’attitudine e il metodo usati da Beane per gli Athletics hanno rivoluzionato il modo di fare managing per il baseball, ma da un film ci si aspetterebbe qualcosa di più di un quasi-documentario con un punto di vista statico e asciutto. Molti numeri sullo schermo, molte, moltissime chiacchiere del genere “questo è il duro cinico mondo degli affari” e davvero un numero spropositato di strane espressioni facciali da parte di Brad Pitt, delle quali spesso non si capisce il senso, tanta gomma da masticare e qualche sputo.
Un eccellente punto a favore (forse non per gli amanti del genere sportivo) è la mancanza del “Discorso”. Quello negli spogliatoi, quello ispirazionale che cerca di far capolino, sembra quasi che in un paio di punti stia per arrivare ma no, non arriva ed è una boccata d’aria fresca in sintonia con il tono distaccato e “matematico” del film. Per il resto la regia è un susseguirsi di sequenze piene di parole, con una punta di atteggiamento riverente a Fincher, qualche slow motion di troppo, qualche taglio spazio-temporale eccessivo, anche se si capisce la necessità di condensare un anno in due ore.
Se questo film non avesse cercato di dare l’impressione di essere sentimentale sarebbe stato un ottimo film: l’atteggiamento sterile del tagliar corto e fare economia per vincere è un’ottima strategia che potrebbe essere utile anche ai registi. Unica piccola eccezione i momenti dedicati al co-protagonista Hill che stupisce per sensibilità e realismo, ma chi cercava un altro Jerry Maguire farebbe bene a non andare al cinema. Più statistiche che emozione dallo sceneggiatore Aaron Sorkin (West Wing, The Social Network).
Voto: 2,5/5
Articolo del
07/02/2012 -
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