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Prendete uno dei più acclamati e venduti best-seller del mondo, aggiungete il mestiere di uno sceneggiatore premio oscar come Steven Zaillan, incorporate quindi l'indiscutibile talento di David Fincher, infine mescolate. Finito il procedimento, spolverare a piacere l'intuito musicale di Trent Reznor e del sodale Atticus Ross. Come a dire, prendi gli ingredienti migliori e il risultato è assicurato. Questa la formula per il successo. E, senza ombra di dubbio, Millennium: Uomini che odiano le donne, conferma la bontà dell'assunto. Sin dalle prime battute si ha l'impressione, per l'appunto, di uno spettacolo di livello superiore. Prologo algido e misterioso, spazzato dalle bufere di neve scandinave. Titoli di testa che sembrano più un testa a testa, l'incubo liquido e informe, dai contorni cyberpunk, dei protagonisti, si confronta con la geniale rivisitazione di Immigrant Song, che lo commenta. Stabilire un vincitore? Pretestuoso e inutile. Personalmente propendo per la cover di Karen O., Reznor e Ross.
Dopodiché eccoci catapultati nell'intrigo. Una famiglia dal passato violento e taciuto, una nipote scomparsa da anni e forse morta, una serie di omicidi seriali. Il detective, Mikael Blomkvist, giornalista caduto in disgrazia, e la collaboratrice Lisbeth Salander, geniale e sociopatica. Ma davvero è necessario descriverla? Ecco le pedine disposte sulla scacchiera. Tutto secondo copione, niente è lasciato al caso. Sì, perché se qualcosa alla pellicola si può imputare, certo non è la mancanza di solidità della sceneggiatura. Proprio qui emerge la professionalità di Zaillan. Struttura impeccabile nel rispetto del dogma dei tre atti, snodi cruciali dove ti aspetti che siano, azioni dei personaggi coerenti allo sviluppo della trama. Syd Field potrebbe citarlo nel suo prossimo manuale di sceneggiatura. Tutto torna e ogni personaggio possiede una sua funzionalità rispetto alla progressione dell'indagine/dramma. A questo proposito, vedere il personaggio di servizio, la figlia di Mikael.
Un film di sceneggiatura allora? Nemmeno per idea, risponde Fincher. Attenti, stiamo assistendo a un secondo incontro tra pezzi da novanta. Colpi da maestro ne ha in serbo anche la regia. La sequenza che porta ai ferri corti Blomkvist e il serial killer è da brividi. Come il seguente faccia a faccia, una sorta di intervista ripresa dove il personaggio interpretato da Daniel Craig, incatenato e reso impotente, sembra alludere al ruolo del giornalismo odierno. Svilito. Insomma, l'equilibrio tra copione e mise en scéne rimane intatto.
Ogni cosa al suo posto? Tradotto per i più esigenti: niente di nuovo? Dove si rintraccia l'autenticità della pellicola? Dove il nuovo lavoro di Fincher si affranca da altri dello stesso genere e tenore? I personaggi. Ecco la vera eccezione. Certo, come è stato detto, agiscono all'interno della gabbia imbastita dal binomio regia/sceneggiatura. Tuttavia la capacità di infondere rabbia, potenza e nel contempo sensualità e fragilità a un personaggio come Lisbeth Salander, rende conto delle potenzialità di un'attrice promettente come Rooney Mara. Non da meno si dimostra Daniel Craig, in grado di smarcarsi dal cono d'ombra dell'ingombrante figura della sua assistente. Così, proprio in questo frangente, si comprende come la convenzionalità della sceneggiatura e l'impianto registico, talvolta puramente di appoggio alla trama, abbiamo sostenuto il lavoro sul personaggio e del suo interprete. L'abitudine di Lisbeth di basare la propria alimentazione sugli Happy Meal per esempio, o il ritorno al tabagismo di Mikael Blomkvist, costituiscono degli spunti sui quali lavorare, aggiungere complessità e sfaccettature per nulla banali a due personaggi che paiono rifuggire da ogni schematismo.
Fine dell'incontro, abbiamo trovato i vincitori.
VOTO: 3/5
Articolo del
09/02/2012 -
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