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Quanto resiste la memoria di un popolo? Un ricordo si mantiene a lungo, impresso sulla retina, sotto forma di immagine. Si isola, diventa veicolo in grado di restituire una sensazione potente, forse non immediatamente comprensibile, soprattutto se gli anni dall'evento esperito si contano a doppia cifra.
Quarantatrè. Tanti ne sono trascorsi da quel 12 Dicembre che diede inizio a una stagione che il cinema stesso definirà degli Anni di piombo.
Piazza Fontana. La bomba. I diciassette morti. La “strage” del titolo. L'accaduto che si imprime nella memoria sensoriale di una nazione intera. Poi il film, “il romanzo”, che serve ad allargare l'immagine, a oltrepassare la dimensione puramente sensitiva. Descrive il fatto di cronaca, lo razionalizza e lo completa seguendo una precisa versione degli eventi che non potrà avere conferma o riscontri.
Questa tensione tra l'impatto emotivo e l'ansia di fornire gli strumenti per comprenderlo fino in fondo definisce i limiti e i meriti del film. Il lavoro di Marco Tullio Giordana, con l'apporto degli ormai abituali sceneggiatori Rulli e Petraglia, ha l'ambizione di parlare a un pubblico vasto, non solo quello più vicino ai fatti narrati. Da questo punto di vista risulta quasi spontanea la scelta di rimarcare i passaggi logici; di sottolineare il peso e il ruolo dei diversi personaggi, ricordando allo spettatore chi sono. Utilizzare un linguaggio semplice e riconoscibile rappresenta il passo successivo. Dalla forma romanzo ritroviamo la suddivisione della pellicola in capitoli; dal cinema l'impiego della grammatica base. Dal flashback in bianco e nero, all'utilizzo di materiale d'epoca, tipico dei film d'inchiesta.
Un affresco squisitamente didattico dove i protagonisti, interpretati con umana e credibile partecipazione da Pierfrancesco Favino e Valerio Mastrandrea, emergono rispetto al colorito stuolo di interpreti. Pedine di un gioco queste che, attraverso una recitazione di superficie, aiutano a definire gli schieramenti. Dove l'anarchico Pietro Valpreda è così milanese, che nemmeno ci puoi credere. O il giornalista di destra così truce da non poter essere che al soldo dei servizi segreti.
Scelte, di nuovo, dettate dall'ansia di fornire le coordinate giuste per evitare di perdersi nel groviglio di informazioni, complotti e verità taciute. Un dedalo inesplicabile ancora oggi, un territorio impervio dove il “romanzo” apre un sentiero, ma di cui non è possibile vedere la fine. Romanzo di una strage raggiunge il proprio compito informativo e formativo, dosando sapientemente dramma e cronaca e giovandosi di un impianto visivo assimilato e funzionale, talvolta televisivo.
Infatti se il contenuto, il messaggio – il “cosa” insomma – si manifesta con forza, il “come” non convince appieno proprio per la sua intrinseca convenzionalità. Il divo di Paolo Sorrentino, Post Mortem di Pablo Larrain, hanno dimostrato che il cinema può approcciare la Storia seguendo strade molto diverse tra loro, anche forse poco intellegibili di primo acchito, eppure capaci di imprimersi come un doloroso marchio a fuoco nella memoria visiva dello spettatore. Un marchio che forse manca al film di Giordana.
VOTO: 2,5/5
Articolo del
05/04/2012 -
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