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"Questa nave è la nostra patria, questa nave è l'Inghilterra!" grida il capitano Jack Aubrey alla ciurma per portarla all'entusiasmo che rende pronti a uccidere e a morire in battaglia in nome dell'amore di patria. Che questo entusiasmo sia una virtù o un imbroglio, il film non lo dice esplicitamente. In questo 'Master and Commander' è stupendamente ambivalente: non c'è una chiara attribuzione di ruoli da buoni per gli inglesi e da cattivi per i francesi, non dice se sia eroismo o stupidità l'ardore con cui si combattono pur essendo simili fra loro (e senza avere nemmeno 'la divisa di un altro colore', almeno per la ciurma). Lo stile del regista è quello di chi, apparentemente, si limita a osservare, come animali al microscopio, gli uomini a bordo di una nave inglese, che ai tempi di Napoleone si impegna in una lotta senza quartiere contro una più potente nave francese. Il fatto che il duello si svolga dall'altra parte del mondo suggerisce però che lo scopo di Peter Weir non è descrittivo: in quella lotta per la patria lontani dalla patria sembra di vedere un anticipo del crescendo di aggressività che nel XX secolo porterà alla prima e alla seconda guerra mondiale, tracimate dall'Europa fino a coinvolgere tutto il pianeta. La nave è protagonista della storia ancor più del personaggio di Russel Crowe, o di quelli che gli fanno da cornice: il medico di bordo che quasi incarna l'anima razionale dell'uomo in un complesso rapporto odio/amore con l'anima bellicosa; l'ufficiale tredicenne che vive la guerra un po' come dovere e un po' ccome gioco, pur avendo imparato nella sua carne che un gioco non è, e tanti altri. La meticolosità con cui la quale la nave viene descritta nei suoi aspetti materiali è eguale a quella usata per mostrarci la nave come comunità, tenuta assieme tanto dalla solidarietà marinaresca quanto dalla disciplina e da un po' di rum. Un gruppo dove si può dare la vita per tutti, ma dove tutti possono coalizzarsi contro uno per salvare il gruppo, dove le singole persone possono essere offerte quasi come sacrifici umani alla patria da servire. In questo gruppo il comandante è padrone, ma non assoluto: può ordinare tutto, ma non a suo capriccio. E gli uomini lo seguono anche per questo: ognuno ha il suo posto, ognuno è importante, tutti servono la patria. Forse è questo il punto di lettura più adeguato fra i molti legittimi per questo film: il nazionalismo mostrato ad uno stato meno evoluto attraverso la metafora della nave e del comandante che insegue un nemico più forte dal Brasile alle Galapagos per affrontarlo in un duello eroico (o assurdo), emergendo come esempio di dedizione a un ideale più grande (o di stupido orgoglio per il quale si sacrificano inutilmente tante vite). Eppure, anche in questo film di Weir, l'ultima parola è alla libertà dell'uomo. Non nella conclusione della storia, che in fondo è una non conclusione che lascia intravedere ancora patrie in guerra e ancora sacrifici umani; ma nello sguardo di un ufficiale adolescente, educato al coraggio in guerra e all'amor di patria, che scopre il fascino della ricerca, dell'amore per il bello e per il vero, per la pace che permette di coltivarli. Sarà lui a dover scegliere fra queste due passioni. Anche se la storia ci dice che la guerra fra patrie è un piano inclinato, e fermarsi è impossibile. O quasi.
Articolo del
06/02/2004 -
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