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La fluidità e la vivacità del linguaggio filmico all'interno de "Le invasioni barbariche" assorbono lo spettatore in un comodo abbraccio, in perpetuo sorriso frammisto di commozione. Una mescolanza emotiva che spiega come mai un film tanto poco innovativo sul piano della tecnica, possa ambire a un riconoscimento come Miglior Sceneggiatura al 56mo Festival di Cannes. Dopo quasi vent'anni dall'uscita de "Il declino dell'impero americano", il canadese Arcand rimette in scena gli stessi personaggi, riuniti intorno al tema della morte, che poche volte è stato narrato in termini tanto arcadici ed ironici allo stesso tempo. In un elogio funebre degno di un volo pindarico, gli -ismi, le ideologie, la politica, il sesso, gli elementi che insomma appartenevano idealmente al millennio scorso vengono commemorati e decantati, con estrema poesia sulla vita e cinismo nei confronti della socità contemporanea, da una cricca di amici, riuniti dopo tanto tempo intorno al letto di morte di uno di essi. L'occasione per il mordace simposio d'amore per un' endemica eudemonia del passato è resa possibile dai soldi del figlio (figlio anche di quella nuova generazione che sta soppiantando quella elogiata) che tenta una estrema ricongiunzione con Remy, ex professore malato di cancro (metafora della malattia che ha colpito i genitori di Arcand), riuscendo persino a farlo riflettere sui suoi errori. Perchè, sebbene Remy abbia amato la sua giovinezza e l'abbia celebrata edonisticamente, deve compiere qualche lucida considerazione su ciò che lascerà dopo di sè. 'L'impero americano è il dominatore assoluto del mondo': il regista (il cui alter ego è appunto Remy) rivive la morte della civiltà invasa dal capitalismo, proponendo un'opera postmoderna, dove l'autorefenzialità è priva di soluzioni, lasciando il vecchio in una semplice presa di coscienza del suo stato. Lo strapotere degli Stati Uniti ha subito un attacco esterno che ne ha fatto tremare le fondamenta. Ma i primi barbari ad invadere sono stati proprio loro, provocando lo sfacelo di quella antica civiltà occidentale che lo stesso Arcand non riesce ad abbandonare, poichè incapace di accettare il nuovo. Gli americani, capi incontrastati di questa nuova era, hanno abbattuto i confini tra le nazioni, provocando a loro volta una scissione (americani Vs non-americani) e questo sembrerebbe portare anche ad un'insanabile rottura con la nuova generazione. L'assenza della figlia è invece risolta proprio grazie al portatile (il consumismo) di Sebastien (il principe dei barbari). Remy non vuole 'andare a morire negli Stati Uniti', rifiuta di uniformarsi alla way of life che il figlio, in un seppur amorevole tentativo di alleviare le sue sofferenze, gli offre. La camera dell'ospedale, che pure appare come una parodia all'emblema del principio di dominazione del capitale (direttori e sindacati sono dipinti come macchiette) e di una credenza religiosa che salva tutt'al più la coscienza (e aiuta la masturbazione: bellissima citazione del 'Cielo sulla palude'!), non può più contenere la mirabile sensibilità di una romantica e edenica affezione alla vita. La casa sul lago, palco dell'ultima cena, sembra almeno dare un senso a questa ironica nostalgia, sfregandosi contro il ricordo di una libertina gioventù che sogna (o agogna?) una purezza mitica e scioglie i nodi del paradossi fin qui citati (attacco diretto frontale che non risparmia nessuno, nemmeno, udite udite, Berlusconi). Così, Remy cerca di conservare la parola scritta, come un monaco medievale, lasciando la sua biblioteca a Nathalie, un 'imperfetta' che tuttavia ha saputo far cadere per un momento il neo-pricipe dei barbari e che ha riacquisito la percezione positiva della vita proprio grazie a Remy. In un'incessante giostra di dialogo, il film appare una commedia dalla sceneggiatura impeccabile (e talora dalla pratica di regia un po' ingenua) che si allontana dal politically correct per giungere nei toni limpidi e divertiti di una rimpatriata che per un momento ci fa dimenticare la tragedia imminente, senza la quale, tuttavia, lo script mancherebbe dell'estrema urgenza di presentarsi in chiave così ferocemente sardonica: il trapasso è inevitabile, tanto vale assaporarlo come un addio poco lucido (grazie all'uso della droga) che consenta l'abbandono alla dolcezza di un lungo ricordo. Nonostante i toni cupi necessari a rappresentare la fine dell'esistenza, il film è un'elogio alla vita: il senso di realtà sta proprio nell'ironia, che unisce sempre le due facce della stessa medaglia.
Articolo del
24/02/2004 -
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