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Sono passati cinque lunghi anni dal 2007, anno in cui i Led Zeppelin comunicano che il dirigibile decollerà ancora una volta e precisamente il 10 dicembre.
Ma facciamo un passo indietro procedendo per ordine. La band si scioglie nel 1980, a causa dell’inaspettata e tragica morte del batterista John Bonham. Da quel momento la promessa è stata mantenuta: i membri rimanenti non hanno mai più suonato insieme, Live Aid (1985) e quarantennale della Atlantic esclusi, per rispetto del loro amico e collega Bonzo. Nel 2007 dopo la morte di Ahmet Ertegun, l’uomo che li aveva fatti firmare per l’Atlantic, Page e soci decidono di rimettersi insieme per un’unica data il cui ricavato andrà tutto in beneficenza. I Led Zeppelin ci hanno da sempre abituato ai grandi numeri: guadagni vertiginosi, concerti di più di quattro ore, tour infiniti, distruzione di hotel e anche stavolta le cifre non li hanno smentiti. A fronte dei 21.000 posti, estratti a sorte, nel primo giorno la richiesta ha superato i venti milioni mandando in crash il sito e finendo direttamente nel Guinness Dei Primati con qualcosa come più di 30 (34 si dice) milioni di richieste complessive. Il concerto, previsto a novembre, slitta di un mese per la frattura dell’anulare di Jimmy Page, aumentando la spasmodica attesa per quello che ormai possiamo considerare il loro testamento definitivo.
Oggi, a distanza di mezza decade, quel live diventa disponibile per un solo giorno e in anteprima mondiale in molti cinema. La data scelta per la proiezione è il 17 ottobre. Nel giro di poco tempo la febbre zeppeliniana cresce in maniera esponenziale costringendo gli organizzatori dei cinema ad aggiungere spettacoli, date e giorni per garantire la schiacciante richiesta del pubblico. Al Nuovo Cinema Aquila di Roma l’evento registra da subito il sold out. Alle 21.45 la sala è piena, le luci si spengono e dopo pochissimi secondi il loro moniker giganteggia stagliandosi sullo schermo. Il suono delle bacchette sull’hit-hat di Jason Bonham dettano il tempo e in un secondo il sound di Good Times Bad Times esplode in tutta la sua potenza.
Eccoli lì, tre splendidi ultrasessantenni capaci di incendiare i cuori di milioni di fan. Page è in camicia bianca, capelli argento e occhiali da sole, Robert Plant lo affianca in camicia nera e jeans azzurro. Dietro, e leggermente più in altro, la new entry Jason sfoggia capelli corti e la stazza del padre, mentre decentrato come sempre l’irriducibile Jonsy mantiene una distanza di sicurezza, personale, dal resto della band. E’ bene chiarire le cose sin dall’inizio, i Led Zeppelin non hanno mai smesso veramente di suonare e forse non lo faranno mai. Il combo più famoso possiede ancora una potenza impressionante. La post-produzione audio, curata direttamente dal maniacale Jimmy, che negli ultimi mesi si è barricato in studio per ottenere una performance ottimale, dona massima efficacia al sound complessivo regalandoci una band che ha abbandonato la logorrea live degli anni ’70 per sposare la sintesi. Questa nuova direttiva trova massima espressione nel rifferama coinvolgente della Gibson e nei pattern di Jason. Quest’ultimo molto nervoso, tanto da vomitare una mezz’ora prima dello show, appare più legnoso del padre ma altrettanto potente, non gioca sull’eleganza o sul colore ma spinge e frusta le pelli lasciando al chitarrista la libertà di concedersi molte libertà, proprio come nel passato. Il gigante assoluto della serata si conferma John Paul Jones, sottovalutato musicista capace di suonare tutto: dal basso elettrico fino al fretless, passando per le tastiere scattanti di Trampled Underfoot (omaggio alle radici più profonde del blues) e l’organo con tanto di Moog Taurus nell’immensa e magica No Quarter: in una parola un mostro. Plant, sfruttando un’esperienza che va oltre i quarant’anni, dimostra chiaramente, sebbene qualcuno pensi ancora che la band possa andar avanti senza di lui, d’essere insostituibile. Le sue corde vocali saranno anche sfilacciate e martoriate dai noduli e l’estensione calata, ma quando decide di spingere sulle note alte, seppur con visibile difficoltà, lascia di stucco anche in brani mai eseguiti dal vivo come For Your Life, ammantata di un’eleganza austera.
Se è vero che gli Zeppelin vengono dal blues, il loro omaggio al genere si concretizza proprio nella rituale In My Time Of Dying, in cui Robert Plant, che per anni si rifiutò di cantarla per paura che il brano fosse nefasto, si erge a titano inarrivabile, mentre Page sfoggia un rifferama torrido, irrobustito dall’uso del wah-wah e della slide. Il singer, per gli amici ‘Percy’, ringrazia il pubblico e spiega che è stato bello dare un senso dinamico alla setlist, che è stato difficile scegliere fra molti brani impossibili da scartare. Uno di questi è Dazed And Confused. Tutti si aspettavano l’esecuzione ma pochi potevano immaginare quanto potesse risuonare oscura e inquietante, così paurosamente sinistra grazie alle frequenze dell’archetto sulle corde della Les Paul e le oscillazioni del Theremin, sapientemente manovrato da Page (forse guidato dal suo mentore Aleister Crowley?). E siccome il blues non è mai troppo, non poteva mancare il pathos di Since I’ve Been Loving You, più parca e ponderata dei live precedenti, ma altrettanto struggente. La capacità del regista Dick Carruthers di far funzionare perfettamente il montaggio attraverso riprese spesso in close-up e la fotografia ottimale sublimano la bellezza di uno show che, seppur imperfetto, s’impone per intensità e onestà nei confronti del pubblico.
A superare le aspettative ci pensa The Song Remains The Same, su cui Page esegue un pregiatissimo lavoro sulla dodici corde. La stessa SG a doppio manico è usata per l’intro di Stairway To Heaven, dedicata da Plant a Ertegun: “Hey Ahmet, we did it!”. La sincronia fra immagini e audio di alta qualità, leggermente inficiato da un’acustica della sala scarsa nelle frequenze basse, spingono ad alta quota il volo dello Zeppelin. Quello che spaventa è la veridicità del suono: se un orecchio esperto percepisce l’intervento di alcuni escamotage tecnici sulla voce o di altri cerotti applicati sulle mani dell’ascia ritmica, è altrettanto vero che molte delle imperfezioni diventano parte integrante dello show. Robert Plant non manca una nota, non canta un solo brano allo stesso modo, ne stravolge l’armonia pur rispettando la struttura. I suoi saliscendi vocali catalizzano l’attenzione del pubblico come un magnete universale. Black Dog sfoggia una violenza sonica che le giovani band odierne, al top della loro carriera, non possono neanche minimamente sognare. In seguito, l’andamento maestoso e regale della gentile schiacciasassi Kashmir, dimostra ancora una volta cosa significa salire su un palco e suonare uno strumento a livelli eccelsi.
Per gli encore, come la storia ci insegna, il copione rimane invariato da anni. Lo fecero nel 1979 a Knewborth, nel 1998 a Milano, e anche stavolta i quattro cavalieri chiudono rispettivamente con l’immortale riff di Whole Lotta Love e la tonitruante Rock And Roll, così potenti da far dimenticare quella tristezza che s’avvicina inesorabilmente verso la fine di ogni avventura. Nonostante gli anni in cui sono stati divisi, gli acciacchi della vecchiaia e i pochi mesi di prove, alla fine la gente applaude e alcuni piangono, non per stupide crisi isteriche, ma per gioia e un po’ di invidia per chi, a quel concerto, c’è stato davvero. Infischiandosene dei limiti fisici imposti dal tempo e sebbene l’accordatura sia stata ribassata di un tono e la scaletta modificata ad arte, escludendo gli impervi picchi di alcuni brani per non affaticare l’ugola del più grande cantante di rock di tutti i tempi (con buona pace di Freddy Mercury), la magia che i quattro sono ancora capaci di creare è disarmante. Anche se a volte le dita di Page non riescono a eseguire ciò che la mente vorrebbe, perdendo così quel senso di continuità melodica che un assolo dovrebbe avere, il chitarrista mantiene una magistrale capacità di irrobustire ulteriormente alcuni dei riff più granitici che la storia del rock ricordi.
La band ha confermato una superiorità schiacciante dettata dalla capacità di scrivere musica di altissimo livello, di suonare ogni strumento in modo eccelso e di avere un’energia e affiatamento, generato da una solida amicizia, invidiabili. Finchè tutto questo continuerà a rimanere immacolato, non ci sarà modo di superarli, né in studio né dal vivo. Led Zeppelin uber alles!
SETLIST:
Good Times Bad Times Ramble On Black Dog In My Time Of Dying For Your Life Trampled Underfoot Nobody's Fault But Mine No Quarter Since I've Been Loving You Dazed And Confused Stairway To Heaven The Song Remains The Same Misty Mountain Hop Kashmir
Encore Whole Lotta Love Rock And Roll
Articolo del
24/10/2012 -
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