«… And that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth.». L’invocazione finale del Gettysburg address, certamente il discorso più celebre che Abraham Lincoln pronunciò nella sua carriera e che diede appunto un nuovo “indirizzo” alla politica del proprio paese, riecheggia come un grido di speranza nell’incipit della nuova fatica di Steven Spielberg. Sorprendentemente, quelle battute non provengono dalla bocca del presidente, è un soldato nero a ripeterle di fronte a lui, davvero consapevole del loro significato. In quel preciso istante Lincoln, e lo spettatore assieme a lui, arriva a comprendere il valore storico e profondamente umano che quelle parole hanno saputo evocare.
La guerra civile. Rieletto per la seconda volta, Abraham Lincoln tenta l’azzardo politico più pericoloso: spingere il congresso ad approvare il tredicesimo emendamento alla costituzione, con il quale si vorrebbe abrogare definitivamente la schiavitù.
Lo scontro si accende. Scelto il campo di battaglia: il congresso degli Stati Uniti d’America. Si affilano i discorsi, esplodono le perorazioni, si compra il voto dei voltagabbana. All’esterno, sul fronte, i corpi dei soldati in lotta aumentano di numero; parallelamente, nelle stanze del potere, convinzioni che sembravano inamovibili sono lacerate dai compromessi. In scena, un solo dramma: il fratricidio di una Nazione. Le armi della retorica straziano come le baionette. Lo sa bene Lincoln che non lesina nessun tipo di sotterfugio, tentativo di corruzione, trucchetti al limite del legale, pur di conseguire l’obiettivo. E per quanto la figura del 16° presidente degli Stati Uniti non ne esca scalfita di un millimetro, la sapiente sceneggiatura di Tony Kushner riesce a tratteggiarne i chiaroscuri, umanizzando maggiormente una figura che per tutti ha più le sembianze ieratiche del monumento dedicato alla sua memoria, che quella di un essere umano in carne e ossa.
Lincoln non viene presentato come una creatura monologante, ma interagisce con i propri contemporanei, ascolta e si misura con colleghi, alleati o avversari, con i quali avverte l’intima comunanza per il solo fatto di essere uomini. Solo il finale eccede nel voler consegnare all’immortalità Lincoln, rischiando di trasformarlo in una reliquia.
Certo, almeno inizialmente non sarà facile districarsi nel contesto politico dal quale il film prende il via. I meccanismi di potere e il ruolo stesso dei partiti dell’epoca potrebbero risultare oscuri allo spettatore. Ma con il progredire della narrazione, ogni parola spesa, anche il sofismo più artefatto, o il concione più magniloquente, testimonia quanto la decisione di abrogare o meno la schiavitù avrebbe scosso non solo la struttura di un paese, non solo le coscienze dei cittadini, ma anche il modo stesso di rapportarsi con il proprio tempo.
Perciò, se si avanza il dubbio che la pellicola sia strangolata dall’invadenza della parola, forse è il caso di domandarsi quanto i personaggi e i loro drammi personali ci abbiano scosso. Quanto l’immagine di un presidente sdraiato a fianco del figlio assopito ci abbia commosso. Quanto il percorso attraverso il quale il congresso approvi l’abolizione della schiavitù ci porti a riflettere sulla limpidezza della politica. Emozione e riflessione, che altro chiedere al cinema?
Breve annotazione. Non si è mai menzionato Daniel-Day Lewis. Ma durante la visione ho dimenticato ci fosse un attore a interpretare Abraham Lincoln.
VOTO: 4/5
Articolo del
10/02/2013 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|