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Una donna circondata da uomini che la minacciano urlando fino a metterla in fuga: è la scena di 'Mi piace lavorare' che meglio visualizza il fenomeno chiamato mobbing che, nonostante sia diventato tema da talk-show, è argomento estremamente serio. E in maniera seria lo affrontano Francesca Comenicni alla regia e una Nicoletta Braschi molto calata nel personaggio di Anna, madre sola e impiegata vittima dell'ostilità dei superiori che vogliono indurla a dare le dimissioni dal lavoro. L'impegno e la sensibilità di due artiste non bastano però a garantire il risultato. Se la carrellata di situazioni di mobbing che ci scorrono davanti (con un ritmo lento e serrato al tempo stesso, che è la cosa migliore del film) è autentica, il punto di vista del film è insufficiente a capire il fenomeno, ad andare al di là della solidarietà per Anna, della rabbia per il comportamento dei superiori, della tenerezza per come sua figlia (forse un po' troppo buona e brava) ne vive le ripercussioni. Il punto è che questo è un film politico, nato dalla collaborazione fra la regista e la Cgil; tanto che un banchetto con le bandiere dell'organizzazione viene inquadrato con la macchina da presa per una volta ben ferma, un po' come una volta venivano inquadrati i pacchetti di sigarette con marca in vista. La collaborazione con la Cgil segna il film nel bene e nel male; nel bene, perché attraverso lo sportello mobbing della Cgil di Roma, sono state raccolte le testimonianze necessarie a fare un film autentico; nel male perché, nel cucire assieme le diverse situazioni, l'occhio e la mano dell'autrice non riescono a staccarsi da una visione del mobbing tutta interna alla polemica della Cgil sui "diritti" e contro la "flessibilità". Non che si tratti di polemiche ingiustificate; ma l'origine del fenomeno del mobbing non è lì, non è nel capitalismo che si ristruttura creando nuove contraddizioni e nuovo sfruttamento. Altrimenti non si capirebbe perché si tratta di un fenomeno non esclusivo del mondo del lavoro, ma che si riscontra in ogni organizzazione sociale, quando il "branco" aggredisce il singolo membro deviante dalle regole comuni. Un fenomeno che è stato studiato prima negli animali, poi nei bambini quindi sul lavoro, ed ha a che fare con il fatto che l'uomo è un animale. Come emerge in 'Master and Commander' nell'episodio del 'Giona' (il giovane spinto al suicidio dalla ciurma che lo identifica come colui che attira sulla nave la sfortuna). Ma 'Master and Commander' è un'opera d'arte, mentre la politicità del film della Comencini produce una storia che pecca di strutturalismo (lo stesso difetto in cui cade talvolta un maestro come Ken Loach). Nonostante l'intepretazione fortemente sentita di Nicoletta Braschi, alla fine il film è costruito più sulle categorie che sulle persone, le quali nel film sono buone o cattive a seconda della categoria alla quale appartengono. I maschi sono cattivi, a cominciare da un marito di lei che non si fa vivo con la figlia da un anno ed è quasi peggiore degli spregevoli superiori (maschi) che la umiliano sul lavoro (l'unica donna superiore non viene mai mostrata in questa veste); a fare eccezione è chi, pur maschio, appartiene a una categoria di buoni, come gli immigrati o gli anziani. I personaggi positivi sono donne; e le donne cattive obbediscono al capo del personale, quindi rientrano nella sottocategoria "serve del padrone" (maschio, e pure ciellino come testimonia un manifesto del meeting di Rimini dietro alla scrivania). Ma non si tratta solo di femminismo (il che sarebbe giustificato dal fatto che spesso le vittime del mobbing sono donne); lo strutturalismo impone uno schema da film del socialismo reale. All'iniziale individualismo di Anna (che si fida poco degli immigrati e non firma la petizione della Cgil per l'articolo 18), fa seguito l'esplodere delle contraddizioni sul lavoro, quindi la presa di coscienza dello sfruttamento grazie all'incontro con l'organizzazione di classe, infine la vittoria finale sul padrone. Mentre manca la dimensione strettamente personale del mobbing che non è mai eguale per tutti (come è invece lo sfruttamento del lavoro operaio secondo Marx, di cui il mobbing appare qui una variante moderna). Anche il lieto fine (relativamente lieto, perché un po' di realismo sopravvive a tanto strutturalismo) eredita dalla cultura giuridica della Cgil un eccessivo ottimismo sul fatto che i tribunali siano un luogo dove si possa ottenere giustizia in tempi brevi (per una decisione definitiva ci vuole ben altro che un anno, come invece racconta il film), e senza contare il rischio che il mobbing continui in quella sede, con colleghi che testimoniano il falso contro il mobbizzato, provocandogli la sconfitta e ulteriori danni psicologici ed economici.
Articolo del
22/03/2004 -
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