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Passione e tradimento omosex, è Fino a farti male, il nuovo film, secondo lungometraggio di Alessandro Colizzi, dopo l’esordio nel ’99 con L’ospite, presentato al festival di Berlino dello stesso anno. Così dopo ben cinque anni l’autore “nostrano” torna dietro la m.d.p. con una nuova storia la cui sceneggiatura è ancora una volta scritta a quattro mani insieme alla sua compagna Silvia Cossu. Al centro della storia la coppia tradizionale borghese sana e felice. L’occhio del regista è tutt’altro che tollerante, mette in discussione il mito della famiglia perfetta inscenata nel prologo che si frantuma in mille pezzi sotto gli occhi sorpresi dello spettatore, tra menzogne, parole non dette e lunghi silenzi. Complice, non da meno, la musica “dissonante” - “ingannevole” preambolo sonoro del film - dell’abile compositore Roberto Mariani, che fin dalla prima scena, avverte lo spettatore, ben presto porterà al dramma. Il film colpisce non tanto per la storia d’amore “omosex” che è al centro del plot - tabù che è stato superato e sdoganato soprattutto dalla produzione italiana più recente -, ma piuttosto per l’atmosfera enigmatica che vi si respira. Fino a farti male si presenta come un dramma psicologico dalle trasgressioni “gialle”: la scoperta di un tradimento, un amore costruito sulle menzogne, personaggi e situazioni con una forte carica di ambiguità. Questo non spiegare (i personaggi non vengono mai presentati con gli espedienti narrativi classici) è una precisa scelta narrativa del film - forse l’unico suo fascino – che si moltiplica con una scelta di una cupa fotografia firmata da Roberto Benvenuti. Un modo sicuramente originale – almeno per il cinema italiano – di narrare una vicenda convenzionale, attraverso il regime di una narrazione debole. La prima parte promette molto, le quotidiane nevrosi, i tic dell’anima, le movenze psicologiche, tingono l’agire quotidiano di cronache allarmanti e manie private. È la storia di Marc (Christopher Buchholz, l’attore francese, protagonista anche dell’ultimo film di Michelangelo Antonioni, Eros, che forse vedremo al prossimo festival di Venezia, nonché figlio dell’attore tedesco Horst Buchholz) produttore discografico, marito di Martina (Agnese Nano) che tornando prima del previsto da un viaggio di lavoro a Sophia (nel film anche un piccolo cammeo di Marina Rei, autrice del brano And I close my eyes, una delle canzoni della colonna sonora da lei interpretata in una scena) scopre una realtà del tutto sconosciuta: sua moglie ha lasciato il lavoro da due mesi, ha una relazione con una donna e sta meditando il suicidio. L’uomo che ama profondamente sua moglie, sceglie di indagare i motivi di questa irreparabile decisione. Colizzi ci conduce nei doppifondi dell’anima e nell’impossibilità di conoscere chi ci sta accanto. Tutto il film gioca su questo contrasto, “apparire” e “essere”, e l’omosessualità diventa un pretesto per scandagliare una realtà ben più articolata: l’idea della morte come mito, rito, salvezza. Al centro sta il riciclarsi a fondo della lunga congiuntura canonica di Eros e Thanatos, tra l’incontenibile inconscio e l’invenzione freudiana della pulsione di morte. Martina non sa, non vuole o non può decidersi, è però pronta a morire. Stile algido, raggelato, peccato che la sceneggiatura si perda – soprattutto nella seconda parte - tra dialoghi e interrogativi ripetitivi e a tratti banali, ma pochi film italiani riescono a elaborare indagini introspettive lontane dai classici luoghi comuni, disperdendosi in facili psicologismi (per esempio le numerose liti tra le due amanti), trascurando invece l’intreccio sotterraneo di sentimenti, i silenzi eloquenti e così anche il loro fascino del “non detto”. Il finale è rigorosamente aperto... Una versione rovesciata de Le fate ignoranti di ozpetekiana memoria? Sicuramente non c’è alcun dubbio che “farsi male” è il prezzo da pagare per noi poveri spettatori che vedremo il film!
Articolo del
21/06/2004 -
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