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Il male trasloca in oriente. Il nipponico One Missed Call - The Call. Non rispondere - è uno dei tanti esempi degli ultimi tempi di come l’oriente rappresenti la nuova frontiera del cinema del terrore. In poco più di due mesi sono sbucati nelle sale due film asiatici con telefono da “brivido”: il coreano The Phone e questo giapponese. Entrambi discendenti dal plurimo The ring, trionfante remake americano di Ringu di Hideo Nakata, successo giapponese che ha fatto da apri pista non solo in Asia della moda dello psycho-hi-tech-horror. Lo schema della “videocassetta che semina morte e terrore” viene qui sostituita da un altro oggetto feticcio la “telefonata mortifera che annuncia la tua morte”. L’oggetto del terrore è l’apparecchio più ab/usato: il telefono cellulare. Immaginiamo che un giorno troviamo uno strano messaggio vocale sul nostro cellulare: la voce che ha lasciato il messaggio sembra la nostra e termina con un urlo straziante. Inoltre la chiamata risulta fatta dal nostro stesso cellulare ed è postdatata. Succede così che con una precisione spaventosa in quella stessa data e ora e con il medesimo urlo terrificante si muore. Le coincidenze cominciano ad essere troppe e il cerchio degli annunci di morte via cellulare si allarga… E’ questo l’incipit del film di Takashi Miike, il filmaker 43enne di Osaka, uno degli esponenti più significativi del cinema giapponese, che vanta un apprendistato con Sir Shohei Imamura e un curriculum di 60 film in soli 13 anni dispensati tra piccolo e grande schermo e video. Ritornano alcuni paradigmi dei suoi precedenti film come la satira sfacciata e mordace della vita giapponese contemporanea, pieni di parodie del nuovo Giappone consumistico. Non sfugge l’evidente compiacimento nel massacrare ogni simbolo della comunicazione generalista e di massa (fondamentale a questo scopo la sequenza del reality da incubo, un reality show horror con tanto di seduta spiritica in diretta, che ancora non si era mai vista. O ancora la sequenza più volte ripetuta del grande incrocio di Shibuya, zona di Tokyo attraversato da migliaia di persone al giorno, simbolo della più alta densità di telefoni mobili al mondo). Una simpatica pellicola da programmazione estiva - dicono gli stimatori di Miike, un passo in dietro rispetto ai film passati più abbaglianti e sconvolgenti -, sicuramente si tratta di un lavoro su commissione, è infatti tratto da un romanzo di Yasuschi Akimoto. L’autore utilizza uno schema noto, un po’ ingenuo, non molto originale e già ampiamente collaudato dai suoi predecessori: la morale post-tecnologica. Una somiglianza che ci sembra appartenere però, soltanto alla struttura diegetica, al di là dello spunto narrativo intraprende strade individuali di allettante visionarietà. L’originalità di The Call va ricercata in particolare sui meccanismi della visione codificati dal genere horror, e specialmente sull’uso delle pratiche di voyeurismo ad essi allacciate. Un horror di impianto classico, reinterpretato con l’ironia graffiante di Miike, ricco di citazioni ispirate ai classici del genere, riadattate in stile giovanilistico, esempio di horror tecnologico. I riferimenti sono gli horror occidentali, padrini l’americano Romero e gli italianissimi Lucio Fulci, Dario Argento e Lamberto Bava. Il vero piacere dello spettatore è stato inseguire il gioco delle citazioni e l’emozione nel riconoscere gli zombi di Romero, che hanno fatto la storia del cinema horror mondiale (La notte dei morti viventi) o quelli di Fulci, i migliori horror-splatter italiani. Come non percepire nella scena dell’ospedale con il cadavere che si solleva e procede intimidatorio verso la propria vittima un ossequio a certe atmosfere del mitico Zombie 2 o ancora non avvertire la presenza di Dario Argento nella cantilena mortifera – filastrocca leitmotiv anche di Profondo rosso - con cui squillano i cellulari portatori di morte. L’irrompere della raffigurazione irrazionale della fiaba maledetta – la bambina che torna dall’aldilà per vendicarsi – ci ricorda invece lontani echi misteriosi e fantastici sussurrati da Bava in Operazione Paura. L’autore giapponese mescola in questa inquietante ghost story il tema tutto orientale della permanenza dei morti nel mondo dei vivi con elementi horror classici occidentali. Eppure non abbraccia il risultato dei suoi predecessori, preferisce rovesciarlo, giungendo a fabbricare sempre qualcosa di inedito. Cominciando da materiali di genere, li manipola e fa affiorare alcuni segni pisicoanalitici propri dell’opera, attorcigliandoli ai meccanismi voyeristici della visione, zoccolo duro, delle pratiche horror. La stessa fobia di Yumi, trauma infantile - rivissuto attraverso continui flashback rivelatori – la paura (e anche il piacere) di guardare attraverso un buco, una fessura, un orifizio o un apertura, nell’epoca della globalizzazione non fa che ricordarci i pericoli della visione e del troppo vedere (non è un caso che tutti i cellulari in questa pellicola siano dei videofonini, dotati anche del dispositivo ottico), dell’essere bombardato da immagini e riproduzioni di immagini. Operazione di Miike a ben vedere moderna e riflessiva nel passaggio dell’epoca definita da Walter Benjamin nel lontano ’36 della sua riproducibilità tecnica a quella che ora è stata detta della sua riproducibilità elettronica. Pensiamo alle migliaia di immagini del mondo elaborate quotidianamente con le quali facciamo i conti: televisione, Internet, videotelefoni, videofonini, rappresentanti di un nuovo realismo che ha definitivamente alterato la nostra giornaliera fenomenica percezione del reale. A questo punto non c’è da augurarsi che la sdoganatura di The call (prima volta che un film di Miike viene distribuito nelle sale italiane) da parte di una casa di distribuzione italiana come la Mikado, sia solo l’inizio di una lunga serie…
Articolo del
04/08/2004 -
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