|
Niente di nuovo sul fronte made in USA. Puntuale come al solito è arrivato l’ennesimo e inossidabile filmetto di fine stagione che continua l’ascesa del cinema medio americano con Il padre di mio figlio – My Baby’s Daddy – dell’esordiente Cheryl Dnye. Un film che mescola i vari sequel (vedi remake hollywoodiano Tre scapoli e un bebé o il più recente 15 agosto) che si sono succeduti sulla falsariga del filone inaugurato dal francese Tre uomini e una culla ormai quasi venti anni fa, una commedia servita, come da abitudine americana in pura salsa demenziale (a ben vedere non è da meno nei primi 15 minuti del film anche la prima sequenza, un cartoon che ci presenta classicamente i tre protagonisti: brutta e senza “anima”). E’ la comicità degli uomini alle prese con pannolini e biberon lo spunto di partenza, perciò è la formula della commedia a fare da padrona, ma quella totalmente superficiale e non di sottile ironia. Il padre di mio figlio rimane confinato nella “nicchia” dei film demenzial-giovanilistici, classico filmetto estivo, ma il risultato commerciale non è eccellente (non sarà un caso che il film è visibile a Roma solo in due sale!) grazie anche alla banalità dei dialoghi. Una pellicola ricca di sketch, volgarità gratuite - non mancano rumori flautolenti - e forzature. Dunye cerca di mettere “i luoghi comuni” al servizio dei personaggi, ma deve fare i conti con una storia spesso scontata vendibile entro questi limiti. Il regista nel tentativo di costruire una commedia che sia una raccolta di semplici sketches, sembra riuscire soltanto a dilatare il tempo delle storie a scapito di quella che potrebbe essere la loro incisività. Una comicità frammentaria e disorganica giocata su battute e gag disponibili a più situazioni, decentrata quindi, oltre che puramente infantile. I vari Dunye di turno, non fanno ricorso ad alcuna “ragion comica”, a nessuna ricerca di una compattezza discorsiva. La regia inesperta e attori – Eddie Griffin – che si improvvisano anche sceneggiatori, sono limiti che coinvolgono la struttura stessa del film e del linguaggio cinematografico come veicolo di segni e significanti. Tutto questo giustifica almeno in parte la pochezza del film, di per se stesso insulso ma reso appena commercialmente digeribile dalla colonna sonora “negra”: musica americana hip-hop e rap. Tra apprensione, paura, goffaggine e scompigli estremi delle proprie esistenze i tre maschietti impareranno lentamente a guardare la vita e la maternità con occhi nuovi? La famiglia riuscirà ad arrivare al primo posto? Sarà un altro film sugli uomini ma rivolto alle donne? Sta di fatto che Dunye si cimenta sulla “sindrome di Peter Pan” ma non lascia molto all’immaginazione: Lonnie (Eddie Griffin), G (Anthony Anderson) e Dominic (Michael Imperioli), tre amici sregolati e inseparabili, sono obbligati a crescere velocemente, rinunciando alla loro vita spensierata fatta di feste e divertimento, quando le rispettive fidanzate rivelano di aspettare tutte e tre un figlio. Per i futuri papà inizia così un nuovo periodo della vita in cui conosceranno qualcosa in più su loro stessi... Il cinema americano è anche questo, un’altra Hollywood a pochi km da quella vera, un calderone di generi e un vivaio di nuovi autori cui la nostra distribuzione sempre dedica ampi spazi. La comicità di importazione USA si inserisce in un sistema produttivo dove di solito la risata è relegata in un ambito culturale degradato e degradate destinato al consumo e al gradimento di certe fasce spettatoriali e al rafforzamento dei miti e dei modelli di vita dominanti. In quest’ambito, questo cinema bene rappresenta lo stato di crisi in cui la distribuzione italiana è andata precipitando. Solo la presenza di qualche grande “caso” isolato ha contribuito a individuare la crisi, nella speranza di un suo reale e definitivo superamento!
Articolo del
20/08/2004 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|