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Caterina va in città è la storia tragica vista in chiave comica di una famiglia italiana, quella di Caterina (interpretata da Alice Teghil), una tredicenne del piccolo paesino di Montalto, abituata alla semplice vita di provincia ancora ancorata ad un limbo di incontaminazione, che è culla e condanna dei suoi abitanti. Figlia unica di Giancarlo Iacovoni, Sergio Castellito, professore di ragioneria innamorato del proprio Io, e di Agata, Margherita Bui, madre e donna schiacciata dalla presenza trionfante del marito, vive con una certa abitudinarietà la sua esistenza fino all’improvviso ed egoistico trasferimento del padre in una scuola della sua mitica città: Roma. Iniziano qui una serie di vicissitudini che coinvolgono alternativamente tutti e tre i personaggi, smascherando la loro inadeguatezza a inserirsi nel cosmo, macro o micro che sia: si scontrano infatti in modo buffo e a volte grottesco col mondo esterno esplodendo in reazioni di rottura con esso che rifiutano e disprezzano; senza però trovare rifugio alcuno neanche nel microcosmo familiare, in esso più che mai infatti rivelano la loro incapacità di confrontarsi con gli altri, di instaurare un dialogo. Caterina è ancora avvolta dal suo alone di ingenuità provinciale, che oltre a giustificarla, colora di simpatia la rappresentazione; i suoi genitori hanno invece sclerotizzato le loro peculiarità, la megalomania in lui e la modestia in lei, per le quali hanno perso – se mai la hanno avuta- la capacità di confrontarsi col mondo. Il desiderato e ambito ritorno in città si rivela, in modo rocambolesco e paradossale, uno smarrimento più che un’apertura. A dispetto delle scelte tematiche di un certo rilievo (il poco dialogo in famiglia, i pregiudizi sociali, la malattia del padre, ecc.) le soluzioni narrative a cui si ricorre, quali ad esempio la divisione netta, e inverosimilmente adulta, dei compagni di Caterina in giovani di destra o di sinistra, o lo scoprire la verità del mondo da parte del padre, sono tutte improvvise, buttate senza giustificazione sulla scena o un po’ troppo caricate, quasi adolescenziali. E il film di Virzì per molti aspetti risulta un’opera più per “ragazzi” che per un generico pubblico; la scelta è stata sicuramente quella di un’opera leggera e ironica che non viene portata avanti con maestria: elementi come la follia del padre – ancora una volta un magico Castellito – e l’imperante silenzio familiare stridono infatti con l’incanto che avvolge Caterina, sempre estranea a tutto ciò che più la riguarda e alla troppa leggerezza con cui si conclude ogni momento di difficoltà. Ci sono cioè dei dislivelli nel film, attraverso i quali appena il film assume, pur nella comicità, una certa profondità si fugge nel leggero e nell’adolescenziale, privando l’opera di una linea coerente di evoluzione e togliendole l’organicità a cui aspira. Nel complesso tuttavia Caterina va in città è piacevole, perché ricco di simpatia e sorrisi, ma si direbbe più un film per la Tv che per il grande schermo.
Articolo del
30/08/2004 -
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