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Tra gli habitué ritorna anche quest’anno al festival lagunare - fuori concorso - il duo palermitano Daniele Ciprì e Franco Maresco con Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio. Pare proprio che Il ritorno di Cagliostro, presentato nella sezione Controcorrente di Venezia 2003, abbia finalmente sdoganato la cinematografia della coppia terribile del cinema italiano (ci riferiamo alle roventi polemiche del 1995 causate dall’esclusione dal concorso della Mostra di Venezia del loro esordio nel lungometraggio Lo zio di Brooklyn , o dalle successive disavventure produttive e censorie di Totò che visse due volte), tra i cineasti più appariscenti e esplosivi per originalità e fantasia della mise en scène. Al centro della narrazione del docu-drama Franco e Ciccio, ultimi grandi comici della tradizione popolare, inquadrati in capitoli diacronici, alternativamente in bianco e nero o a colori (tale alternanza viene utilizzata per separare il film in due parti: da un lato le interviste ai sopravvissuti e ai critici che ci raccontano del cinema popolare d’epoca – a colori – e dall’altro i flashback con cui torniamo indietro nel tempo – in bianco e nero), dall’inizio alla fine della loro carriera, durante i quali la fiction e il documentario si danno continuamente il cambio. L’appeal del film-documentario sta nel presentarsi anche come “imbroglio” cinematografico, peculiarità che già avevamo trovato in Il ritorno di Cagliostro, ma soprattutto contrassegno del divertente Enzo domani a Palermo! presentato a Venezia nel 1999, in cui alcuni critici avevano parlato del completo cambio di ritmo, trasandato, da reportage televisivo, anticipazione del cinema venturo del duo. A ben vedere le marche stilistiche della coppia si (ri)propongono, paradigmi di uno stile coerente: Come inguaiammo il cinema italiano non nasconde, come larga parte dell’attività in video dei due registi, il carattere di work in progress. Anche qui gran parte del materiale del film proviene, smontato e rimontato da immagini d’epoca e materiali d’archivio, interviste (Pippo Baudo, Lino Banfi, i critici cinematografici Goffredo Fofi e Tullio Kezich, ecc.) e testimonianze e memorie di alcuni personaggi che hanno lavorato con Franco e Ciccio (gli attori Pino Caruso e Lando Buzzanca, il regista Lucio Fulci, ecc.), per omaggiare vita, comicità e arte di due grandi clown siciliani che forse non “inguiararono” come dice Daniele Ciprì in un’intervista, ma segnarono il cinema italiano anche perché portarono molti soldi ai botteghini di quegli anni. Una storia vera costruita con la precisione di una drammaturgia elaborata, oppure un “inganno” cinematografico? La leggenda dice che fu Modugno a scoprire i due comici a Palermo, ma la verità è un’altra: o almeno questo dicono Ciprì e Maresco…È l’organizzatore Buzzanca a fare conoscere Franco e Ciccio a Modugno… Non importa conoscere la verità, fin da Méliès, sappiamo che il “falso” è connaturato al cinema. Il film è soprattutto un omaggio a due personalità di spicco della comicità popolare, una rivincita della comicità: è il lavoro più comico dei due registi. Franco e Ciccio, rappresentanti della diversificazione fisionomica dell’iconografia delle coppie comiche del cinema, fissato nell’immaginario popolare già dai palcoscenici del burlesque; due personaggi opposti e complementari: l’allampanato Ciccio, la spalla sempre sconfitta, dal momento che accetta di rivestire una funzione rappresentativa delle regole del mondo; e il più furbo e clownesco Franco, con la sua capacità di inventare battute e disarticolare il corpo a ogni evenienza... Entrambi sono i materiali su cui si concentra in un gioco di scatole cinesi Come inguaiammo il cinema italiano (titolo ispirato a uno dei più celebri film della coppia, Come inguaiammo l’esercito di Lucio Fulci; quest’ultimo fu il regista che contribuì alla notorietà della coppia comica, dirigendoli nel loro esordio da protagonisti nel 1962 in I due della legione straniera, e l’anno seguente in Gli imbroglioni; più avanti assegnò al duo dei canovacci più consoni alle rispettive tipologie caratteriali, costruendo così un modello di coppia comica che determinerà la loro fortuna artistica), film in cui Lumière (il documentario) e Mèlies (la finzione) si strizzano continuamente l’occhio. La narrazione si muove in questo doppio binario oscillando continuamente dall’uno all’altro polo. Il recupero dell’oscura tradizione cinematografica palermitana sembra essere il filo rosso che raccorda una poetica avviata dagli autori fin dai tempi di Cinico Tv. Tutto il film - come del resto le altre loro opere - può leggersi come una sorta di paradossale controstoria del cinema italiano, quella delle pratiche “basse”, un processo estetico contrastante e alternativo al cinema ufficiale, che irrideva i film impegnati della metà dei ’60. Una strana storia di cinema sul cinema, raccontata questa volta senza “cinismo” dai due cinici. Il film-documento viene raccontato come se fosse una specie di inchiesta, facendo il verso al documentario televisivo. La pellicola si inceppa continuamente, facendosi beffe del lavoro del critico cinematografico. Il duo con la collaborazione del narratore, all’inizio Gregorio Napoli (nella veste di se stesso: critico cinematografico), poi sostituito da Francesco Puma (si dice che sia il più giovane critico cinematografico), ci svelano gli errori dei dizionari di cinema. Una voce off (quella di Franco Maresco) incalza e sollecita i critici/narratori (abbandonando i loro personaggi-interpreti, Giordano, Tirone, Paviglianiti, ecc.), che rispondono a domande indagatrici e a volte ottuse. La parodia di una finta opera d’arte, è meglio dell’opera d’arte? “Ultimo tango a Zagarol è meglio di Ultimo tango a Parigi?”, si interroga Fofi. Lo stesso Bernardo Bertolucci dice con autoironia, in un’intervista citata nel film: non ho mai visto il film di Cicero, perché temevo il confronto… Questi materiali permettono a Ciprì e Maresco da un lato di giocare con il linguaggio cinematografico – il concetto di comunicazione e di espressione – dall’altro la possibilità di omaggiare un tipo di cinema ormai perduto, perché la comicità di oggi non possiede più né la passione né la tecnica di allora, ma solo una trivialità gratuita e banale.
Articolo del
16/09/2004 -
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