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Puteri Gunung Ledang – La principessa del Monte Ledang – lungometraggio di esordio di Saw Teong Hin, è un esempio di come il direttore della mostra di Venezia 2004, Marco Muller non solo non si è scordato dei paesi maggiori a iniziare dai forti americani – in e off Hollywood – ma ha considerato ex-aequo anche cinematografie minori e svantaggiate, come la Malesia (l’industria cinematografica malese è ancora molto giovane, si producono dai 15 ai 20 film l’anno), che con questa pellicola per la prima volta ha partecipato a un festival e a una vetrina internazionale. Un’operazione molto costosa (addirittura il kolossal più costoso realizzato nella storia di questa cinematografia – oltre 15 milioni di dollari di budget) studiata a tavolino per colpire il cuore del pubblico globalizzato del terzo millennio, amante del folklore, delle culture e dei miti lontani, come quelli asiatici, con cui la Malesia si candida come nuovo set per l’occidente, mirando al mercato internazionale. Ci rammarichiamo del fatto che il coproduttore del film, Gil Rossellini (figlio del nostro grande regista Roberto e di Sonali - la moglie indiana) abbia giocato d’astuzia o semplicemente non sia all’altezza del padre. Viaggiando fuori orario, il film è stato presentato a Venezia 2004 nella sezione Mezzanotte, per intenderci quella ideata 25 anni fa da Carlo Lizzani e da Enzo Ungaro, una sezione che secondo la formula originaria è destinata a offerte estreme e visionarie… Peccato che Puteri Gunung Ledang, non sia stato all’altezza di tali parametri. Se lo scopo del film - oltre che un’esperimento su larga scala – era quello di promuoversi come veicolo artistico per scortare all’estero la cultura e la storia della Malesia, il tentativo è sicuramente fallito. Chi invece dalla Malesia si aspettava battaglie tipicamente regali, storie di pirati, tigri, kriss, e personaggi romantici/avventurosi che sembrano essere usciti dalle pagine romanzate e romanzesche di un libro di Salgari, avrà delle brutte sorprese. Il film cattura materiali convenzionali – arti marziali, danze e musica tradizionale - con uno stile però mutuato dalla fotografia pubblicitaria e dagli spot televisivi (le inquadrature patinate evocano lo stile pubblicitario e dei video). Il regista s’ispira appunto al linguaggio espressivo mutevole e ondivago della nuova Hollywood, della pubblicità televisiva, dei video musicali e della fotografia pubblicitaria, soprattutto quella esotica a misura delle agenzie di viaggi e degli enti turistici, connotata da elementi di carattere turistico e folkrorico. Allo spettacolo ipercinetico bollywoodiano (la Malesia ha forti influenze indiane) a base di danza e canto, Hin oppone il tentativo di creare spettacolo con la bellezza “dei luoghi naturali” delle immagini. Unico soprassalto stilistico sono le sequenze acrobatiche e spettacolari sparse qua e là nel film (è il primo kolossal epico malese realizzato con il ricorso agli effetti speciali), che ci riportano alla memoria i ‘volteggi’ e i ‘voli’ di Ang Lee in La tigre e il dragone. Il protagonista, il guerriero Hang Tuah, che sfoggia qui una grande abilità nel silat, nobile arte marziale, riesce comunque a farci rimpiangere – forse perché meno occidentalizzata - l’acrobatica Micelle Yeoh (la discepola Jen nel film di Ang Lee), unica star del cinema nata in Malesia. Più banale risulta la parte sentimentale e privata, con la tormentata favola d’amore dei protagonisti, che sta alla base del plot. Il dialogo insulso ( frasi come «può una brocca d’acqua spegnere un vulcano? », e ancora «il tuo amore è come un raggio di sole che scalda il mio viso..», sembrano prese infatti da un romanzo rosa della collezione Harmony), fornisce poche informazioni sulla tumultuosa storia malesiana, sulla sua sconosciuta - a noi - cultura secolare, sui rapporti fra i personaggi, e inoltre l’indugiare della macchina da presa su composizioni e panorami statici non garantiscono al film un livello agli standard del cinema d’autore. Il tentativo di Hin è quello di raccontare una storia nazionale notissima, basata sull’utilizzo di due archetipi autoctoni: la principessa Gusti, figlia della leggenda più popolare malese (il monte Ledang, la montagna più alta della Malesia, vuole la leggenda essere il ritiro estremo e solitario di una bellissima sovrana condannata a morire d’amore senza poter sposare il suo principe) e il nobile guerriero Hang Tuah (una specie di Sandokan), famoso eroe nazionale. Leggenda e realtà si fondono in un’unica storia e per la prima volta i destini dei due protagonisti si incontrano, in un amore proibito e contrastato, all’epoca del sultano di Melaka, nella Malesia del XV secolo, purtroppo l’autore riesce così solo ad allungare il brodo con i suoi 142 minuti a disposizione per la rappresentazione. Mancano le motivazioni che stanno alla base della Storia, non si sente il respiro della cultura nazionale che passa inesorabilmente in un paese attraverso i prodotti che produce e, manca anche quel rapporto epico tra storie mitiche e leggende che influenzano la Storia e viceversa. In ultima istanza, non sentiamo la voce della Malesia che prende corpo attraverso l’autore, venendo meno la creazione di un mondo da parte dello sguardo cinematografico. Consoliamoci, perché era la “prima volta” per Saw Teong Hin… Fiduciosi, rimaniamo in attesa di altro!
Articolo del
27/09/2004 -
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