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Thakeshi Miike, il nipponico bulimico di cinema (a monte una sessantina di film in soli tredici anni, anche quattro o cinque in un anno), famoso per la velocità con cui scrive, dirige e monta i suoi film, a Venezia 2004 era presente con ben due pellicole, Izo nella sezione Orizzonti e Box nella sezione Mezzanotte, episodio conclusivo del trittico Three... extremes. Un cinema estremo e corporale – appartiene alla stessa famiglia estetica del “raccapriccio” e “techno-pop” giapponese del connazionale Shinya Tsukamoto - che continua a sorprendere gli spettatori occidentali con pellicole eclettiche, sempre in bilico tra commedia e orrore, folklore e miti orientali riletti in chiave new horror. Con Izo, infatti ritornano i fantasmi che l’avevano reso famoso questa estate (prima volta che un film di Miike veniva distribuito nelle sale italiane) con la bambina/zombi di The call. Non rispondere è ora sostituita dal samurai dalla katana. Adesso più che una riflessione molto orientale sulla permanenza dei morti nel mondo dei vivi sembra utilizzare il filone samurai, tenendo in mente il modello di Akira Kurosawa e l’action movie yakuza, il genere classico e popolare della tradizione orientale. Il film di yakuza, come ogni genere ha le sue regole; Miike le rispetta formalmente, lasciando ampio spazio ai combattimenti, ma – e qui sta la grandiosità della sua regia – inserisce novità per personalizzarla il più possibile. Trasforma una storia di samurai e yakuza in uno sguardo che scava sull’immanenza della vendetta, lucida energia distruttrice e tutto si conclude con un duello tragico e inutile. In un’intervista il regista stesso dice: «Questo film non può essere etichettato sotto nessun genere. E’ soltanto il Massacro compiuto da un Assassino». Più che la violenza del racconto sono le scelte di regia a connotare il film. Il sangue scorre copioso tra vertigini, movimenti di macchina che non risparmia nessuno; è il cinema dello shock visivo. Il tocco di Miike sta nelle raffinate scelte cromatiche dell’inquadratura, affascinate spettacolo per gli occhi. Un grand guignol orientale capace di coniugare il linguaggio dei fumetti all’ultraviolenza. La costruzione dello spazio e del tempo non segue un processo lineare ma crea una nuova realtà immaginaria in cui Izu, il guerriero dalla katana e, il vagabondo della Tokyo contemporanea, sussistono in un’unica continuità. Le opposizioni diventano analogie, gesti e suoni lontani spazialmente e temporalmente si corrispondono. Un uso dello spazio/tempo che potremmo chiamare impressionistico, nel senso che gli spettatori li percepiscono attraverso la coscienza dei personaggi. Izo attraversa lo spazio/tempo, dove luoghi e tempi sono indefiniti e bisognosi di chiarimenti. E’ il samurai che vive nel 1865 e che viene catturato e crocifisso dopo aver assassinato molti uomini dello Shogun; si rincarnerà in un vagabondo della Tokyo contemporanea, affamato di vendetta nei confronti degli eredi dei suoi vecchi avversari tra giochi di potere e corruzione. Izo, il vendicatore disperato, generato dai teatrini politici, rappresenta la violenza e la crudeltà insite nell’uomo, che attraversano i secoli e non si arrendono ai falsi e ingannevoli sermoni di ministri corrotti. Takeshi Kitano, fa una piccola ma eloquente comparsa, nella parte del Primo Ministro, che contro la collera di Izo convocherà i killer giunti da ogni epoca: samurai e yakuza a confronto. Il film incespica – qua e là – in pasticcetti di sceneggiatura, non sempre comprensibili, ma immediatamente si intuisce che ogni coerenza è bandita dalla narrazione. «So che è complicato. E molto difficile da comprendere. Ma non importa. (…)», riflette ancora Miike, interrogandosi sul suo ultimo lavoro. In particolare si sottolinea il carattere mentale della rappresentazione, in rapporto a uno spettatore in grado di attualizzare questa forma di pensiero visivo con un atto individuale (non è un caso che il pubblico veneziano interagiva con le immagini che passavano sullo schermo con risatine paradigmatiche scandite ad alta voce). L’operazione di Miike, in questo film è evidentemente un’operazione metalinguistica. Stilisticamente la pellicola si struttura à la manière de, rispetto ai generi che il cinema ha nel corso della sua storia rappresentato. Allora si capisce perché la figura del leggendario maestro dalla katana, si ispiri allo stile dei samurai, alla Akira Kurosawa, o perché il vagabondo della Tokyo contemporanea riprenda i cliché dell’horror-splatter, segnando il recente confine estremo del gore, e, infine, il filone apocalittico americano contemporaneo, vero e proprio brand del suo cinema. Miike cambia genere rapidamente - tagliente è sempre nei suoi film la descrizione di una società di piccoli gangster, di assassini, boss - ma i suoi personaggi vengono sempre guardati con un’ironia marcata come si vede anche in questo testo. Le sue opere scioccanti e frenetiche che fondono il gangster-samurai, i yakuza, il melodramma, i thriller e la tragicommedia prendono apertamente spunto dalla nuova Hollywood, quella che mescola alto/basso, autoriale/commerciale, cinema di serie B e sperimentazione sofisticata, gioco estremamente postmoderno (nel significato più puro della parola sin troppo utilizzata) in grado di stupire e divertire al tempo stesso il pubblico. Una messa in scena visionaria, tormentata e fissata dall’idea di traslocare la soglia del visibile e del rappresentabile oltre il limite della nozione del buon gusto e dal senso del pudore. Épater la bourgeoise? Niente appare più in grado di scioccare lo spettatore… tanto vale riderci su, sembra il messaggio di Miike. Ma il suo ghigno è beffardo, e il suo sguardo trapassa i secoli, i millenni nel narrare una graduale degradazione della specie umana oggi come ieri…
Articolo del
20/10/2004 -
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