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Il nuovo film di Gianni Amelio ha fatto parlare di sé per tutto il periodo del festival di Venezia, sta riscuotendo un grande successo nelle sale italiane e ha ottenuto la candidatura gli Oscar del 2005 come film straniero. Presumibilmente continuerà a far parlare i critici e gli spettatori ancora a lungo. E’ la storia di Paolo, un ragazzo di quindici anni diversamente abile che incontra per la prima volta suo padre, fuggito dalla sua vita per via della sua malattia. I due iniziano così un viaggio che li porterà da Milano a Berlino fino alla Norvegia, alla ricerca di un passato che conduce con sé rimorsi e paure. Andrea Rossi, che interpreta Paolo, è bravissimo e coinvolgente, così come ben realizzate sono le scene in cui è lui a guidare la telecamera. Tutta la parte riguardante l’aspetto puro della malattia è ben fatta, elaborata e ingegnosamente incastrata. Il regista ci conduce nei vari aspetti della condizione di Paolo, senza piagnistei o facili illusioni, facendoci fare dei passi che in maniera sinuosa eppure lineare ci mostrano quale sia il mondo tutto personale del ragazzo, a volte con un sorriso a volte con durezza, senza mai allontanarsi dal realistico. Ma nel resto dell’azione cinematografica Gianni Amelio non convince. E’ facilmente intuibile perché non sia riuscito a mettere a segno la vittoria a Venezia: forse la scelta di Kim Rossi Stuart non è stata delle più azzeccate, o forse non gli è stato dato modo di interpretare al meglio una parte così difficile e delicata, o forse entrambi i fattori hanno concorso a ciò; è certo però che la figura del padre non è di spessore come dovrebbe. E’ un personaggio che, stando alla trama, si imbatte all’improvviso e in modo traumatico nel suo ruolo di padre di un figlio malato e che piano piano ne assume la consapevolezza; in realtà non c’è nessuna crescita del personaggio, sempre ancorato alla medesima espressione facciale e ad azioni più sprovvedute che altro. Anche la figura femminile che gli si accompagna, madre a sua volta di un handicappato, e interpretata da C. Rampling, è sterile e poco convincente. Affettata nelle parole e sempre in posa nei suoi gesti, non rispecchia in nessun modo il candore e la vitalità di cui si fa portavoce. Sembra più una fata – che sul finale rinnega senza motivazione la sua missione- che un personaggio. Entrambi gli adulti della storia sono francamente piatti e insignificanti, interpreti di vicende in cui loro non sono altro che maschere immobili; l’immagine del mondo normale, cioè il loro, che si confronta con la malattia è retorico e scontato, senza spessore; il “muoversi” del padre nella storia è un susseguirsi di azioni stentate quanto immature, ma soprattutto sterili. Le chiavi di casa ambisce ad essere un’opera realistica e distaccata, ma può trovare un suo compimento solo nel ricorso a un coinvolgimento patetico dello spettatore, indotto con facilità dal tema. E questo non ci ha convinto. Staremo a vedere cosa ne diranno gli americani.
Articolo del
02/11/2004 -
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