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A far la parte del leone sugli schermi di questi tempi sono i ragazzi, gli adolescenti, i giovani, da proteggere e da prestargli attenzione, bisognosi e in pericolo, emblemi di un’irresolutezza che è sotto gli occhi di tutti. Un invito agli adulti a prestare più attenzione al mondo dell’infanzia? L’irrequietezza giovanile diventa un vero e proprio marchio di fabbrica di un “certo” tipo di cinema contemporaneo. Così dopo la Spagna de La mala educatión, la Francia di Les choristes, passando per il Cile di Machuca, si arriva infine alla Svezia di Evil il ribelle; la storia, più o meno, è sempre quella… il riconoscimento di figure e situazioni che ritornano (atmosfere rétro, direttore rigido, la madre infelice, l’energia della musica e il finale da favola). Da qui l’ennesima variazione sul classico filone dei collegi oppressivi e della gioventù ribelle, con alcune citazioni esplicite e qualche frecciata a James Dean e al suo Rebel without a cause/Gioventù bruciata, emblema della gioventù irrequieta degli anni ’50. Ci piace segnalare Evil il ribelle perché apre una finestra sullo schermo svedese, cinematografia molto vivace e stimata in patria, ma poco conosciuta dal pubblico europeo - dopo i fasti del passato legati per lo più alla filmografia di Ingmar Bergman - accostando il cineasta Mikael Håfstrom ai più noti (almeno qui in Italia) connazionali Lucas Moodysson (Fucking Amal, Together, Lilja 4-ever) e Josef Fares (Jalla Jalla, Kops), rappresentanti della nuova wawe svedese. Il lungometraggio di Håfstrom, nella doppia veste anche di sceneggiatore (segnaliamo inoltre la sua firma nella sceneggiatura di Kops), ha fatto incetta di riconoscimenti ed è candidato all’Oscar 2004 come miglior film straniero. Fin dai titoli di testa l’autore scandinavo non nasconde la matrice letteraria, la pellicola è infatti tratta dal best seller autobiografico omonimo - Ondskan/Evil - del giornalista/scrittore Jan Guillou, che racconta le difficoltà ed i tormenti della sua adolescenza nella Svezia degli anni ‘50. Il regista restituisce fedelmente la storia, ma non coglie l’ambiguità che percorre ogni pagina scritta. Mette in scena l’esperienza vissuta da Guillou con uno stile piuttosto classico, esasperando i momenti drammatici da un linguaggio iperrealistico: sangue, escrementi e vomito sono il leitmotiv del film. Erik - alter ego di Jan Guillou - è un sedicenne, che subisce silenziosamente le violenze del patrigno tra le mura domestiche, mentre all’esterno fa esplodere la sua rabbia (che sia scritta nel dna, tale padre, tale figlio, pardon figliastro?), così da essere espulso dalla scuola pubblica per cattiva condotta. Inserito grazie agli sforzi della madre, in un collegio esclusivo, si troverà nuovamente ad affrontare l’inferno della violenza, questa volta sotto la spoglie del nonnismo, praticato dai compagni più grandi. Naturalmente saranno i buoni sentimenti di amicizia e del primo amore ad aiutarlo a superare l’inferno… con tanto di finale edificante. Per raccontare questa storia di formazione e di riscatto sociale (Erik non solo metterà la testa a posto, ma continuerà a studiare per diventare avvocato), il regista sceglie delle modalità formali in cui il realismo è il tema ricorrente, non solo estetico, ma specularmene anche del plot e del décor (i costumi e l’arredamento minimalista svedese anni ‘50). Un registro realistico, né zuccheroso né moraleggiante, senza particolari edulcorazioni ruffiane della messa in scena, rischio dribblato fortunatamente se pensiamo che Håfstrom si rifà alla tradizione del realismo televisivo (viene da un lungo apprendistato nella televisione); ci restituisce invece, un ritratto spesso impietoso del microcosmo collegiale e lo stridore che ne deriva resta addosso allo spettatore. Purtroppo il film si scolorisce man mano, romanzone che non riesce a coinvolgere; è un peccato, anche perché gli interpreti non sono da buttar via, soprattutto il protagonista Erik/Andrea Wilson e il suo antagonista dal nome palindromo Otto/Gustaf Skarsgard, tutti attenti a non esagerare troppo la recitazione sul versante melodrammatico che avrebbe anticipato l’arenamento del film. La poetica giovanilistica – nell’accezione più nobile del termine – questa volta non riesce a trascinarci con sé nella sua abituale magia, avvolta com’è in una confezione paratelevisiva. Il regista conosce il mestiere, d’accordo, ma troppo frettolosamente mette da parte la denuncia sociale e i maltrattamenti ai minori, si accontenta invece di essere grammaticalmente corretto, senza emozionarci, stemperando il dramma in immagini illustrative, professionali e un pò sciape, rischiando addirittura di annoiarci…. ma soprattutto di proporci qualcosa di datato e déja vu! Ma questo è soltanto il giudizio di chi scrive… qualcuno s’appassionerà pure alla vicenda…
Articolo del
10/12/2004 -
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