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In ostaggio è stato presentato in anteprima da Robert Redford al “suo” ultimo Sundance Film Festival, esordio dietro la macchina da presa dell’olandese di nascita, ma americano di adozione Pieter Jan Brugge, famoso in passato nelle vesti di produttore di film di successo come Heat, The Insider e Bulworth. Operazione natalizia con tutti i crismi per sfondare al botteghino, soprattutto per la valida presenza di tre attori del calibro di Robert Redford, Willem Dafoe e Hellen Mirren (quest’ultima indimenticabile protagonista nell’acclamato film di Robert Altman, Gosford Park). Sarebbe sin troppo facile giudicare dalle apparenze, ma qualche volta anche un filmetto da vecchio entertainment può riservare qualche piacevole sorpresa! L’apparente serenità e monotonia di Wayne Hayes/Robet Redford e Eileen Hayes/Hellen Mirren, coppia borghese, viene all’improvviso interrotta dal rapimento di Wayne, portato in mezzo ai boschi da un ex collega Arnold Mack/Willem Dafoe, che dice di agire per conto di terzi. Mentre Wayne cerca di negoziare la propria vita, la moglie collaborando con l’Fbi inizia un processo d’introspezione nel passato più remoto… Lo sguardo di Brugge indaga tra le pieghe del “sogno a stelle e strisce” filtrato da un genere come il thiller di serie B. «Nella corsa verso il successo, ci sono vincitori e vinti. Ma il costo per entrambi è enorme (…). L’idea di non avere successo può apparire spaventosa. (…)», dichiara Brugge stesso in una recente intervista. L’autore fa la sua parte, raccontando a modo suo quel che resta dell’eterno mito americano, indagando dall’interno di un’apparente famiglia “per bene”, ispirato da un fatto di cronaca nera, un sequestro realmente accaduto in Olanda. La follia, la cui verità si perde nelle profondità più remote, sembra il prezzo da pagare da coloro che rimangono esclusi dal successo. Brugge costruisce un film prevedibile, ma rivela una capacità – anche se non da promuovere a pieni voti - di giocare con la follia che si cela nel quotidiano come arma per capovolgere categorie e forme della narrazione cinematografica. In altre parole, la storia ruota intorno ad una tematica ampiamente sperimentata nel cinema d’Oltreoceano, ma Brugge la smonta e la rimonta in modo non tradizionale. La coppia Robert Redford/Willem Dafoe è protagonista di questo incontro/scontro, che non cede mai al facile manicheismo dei personaggi tanto differenti (si intravedono lontane ascendenze – cit/azioni - michaelmanniane?) da risultare antitetici. Thriller psicologico e dell’anima che fa emergere il rimosso attraverso il cinema, imperniato sul confronto, prima a distanza, poi sempre più ravvicinato, fra il sequestratore (Arnold) e il sequestrato (Wayne). Simboliche in quest’ottica le scene in cui Arnold e Wayne si ritrovano durante il sequestro in mezzo ai boschi a questionare delle proprie vite come si usa fra amici di vecchia data, come se l’essere sequestratore e sequestrato per un istante non contasse nulla. Il “cattivo” personaggio smarrito, sembra dotato di sensibilità (si prende perfino cura dell’”ostaggio” del titolo) e il “buono” gioca a fare il duro, ma in realtà si lasciano sedurre dal fascino dei reciproci ruoli («Arnold è ossessionato da Wayne» spiega Dafoe, «Wayne è l’uomo che lui avrebbe potuto essere»). Brugge si diverte con queste antinomie e con ogni elemento discordante, per fabbricare un intreccio in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore, ma anche di suscitare nello stesso simpatia verso i vari stati d’animo dei personaggi. L’atmosfera iniziale è decisamente suggestiva: Brugge predilige da principio un approccio psicologico e introspettivo, fatto di suadenti primi e primissimi piani. A metà dell’opera, l’attenzione è invece tutta rivolta alla dinamicità dei movimenti di macchina, l’uso pressoché costante dello steadycam, delle panoramiche e del dolly assumono rilevanza sull’aspetto psicologico. Da questo momento in poi l’azione diventa protagonista della scena. Ma la mano del regista perde colpi: il preludio alla sequenza conclusiva non sembra essere il modo più naturale per chiudere un film che comunque sembrava avere qualche asso nella manica. Tanto rumore per nulla, perché la sceneggiatura, all’inizio brillantemente costruita per inchiodare lo spettatore sulla poltrona per 131 minuti, non evita scivoloni di maniera. Questa volta l’happy end l’abbiamo scampato, ma il finale non è piaciuto, rimane comunque troppo prevedibile per un thriller, e l’ultima inquadratura con Helen Mirren che ripete ad alta voce la frase del marito, «se tu mi ami allora ho tutto quello che mi serve», poco si concilia con le modalità narrative sperimentate nel corso del film. Al di là di tutto … c’è di molto peggio!
Articolo del
07/01/2005 -
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