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Dopo In the Mood for Love (2000), 2046 è l’ultimo elefantiaco lavoro del talentuoso della settima arte, il rampante quarantenne di Hong Kong: Wong Kar-wai. In quattro anni di riprese, l’opera ha rischiato più volte di rimanere una chimera a causa di continui problemi e contrattempi, tra ritardi realizzativi, tagli di budget, attori che lasciavano il set per disperazione, l’epidemia della Sars, tanto che il cineasta ha trovato anche il tempo per girare simultaneamente La mano, il suo splendido episodio del trittico Eros. Cosa si può dire di un genio, cosa si può ancora dire di Wong Kar-wai, sul quale sono stati scritti fiumi di inchiostro? Consacrato già a livello mondiale come maggior esponente della seconda new wave hongkonghese, Wong con quest’ultimo film firma quello che si può considerare un capitolo conclusivo di quella che è la sua personale poetica. Una pellicola piena di rimandi interni alla sua filmografia, un viaggio zigzagante lungo il crinale delle sue ossessioni, del suo cinema, delle sue passioni fino a oggi. Qualcuno ha parlato di summa della poetica wongkarwaiana, perché in questo testo l’autore si confronta con i topoi sui quali si è formato e ai quali ha dedicato gran parte della propria filmografia. Capace di omaggiare Truffaut (atmosfere sospese e rarefatte), Godard e Antonioni (inquadrature girate con uno stile dissonante e dissociato), ma al tempo stesso di foggiare un’opera piena di vita, la cui estrema eleganza formale e il coraggioso lavoro sul linguaggio amplifica la forza emozionale celata dalla patina dell’opera sperimentale. Per questo motivo, non hanno alcun senso le accuse di “calligrafismo” (poco compreso in occidente, ma anche in patria il film è stato apprezzato poco) allo stile di Wong Kar-wai, in quanto la bella forma è la conditio sine qua non del suo cinema. Il suo è cinema puro, una pratica di cineasta rivolta essenzialmente alla creazione di forme e alla narrazione per immagini, tanto più possibile lontana dalla linearità di causa-effetto della drammaturgia tradizionale, sempre in cerca di un nuovo modo cinematografico di raccontare per immagini. 2046 è al tempo stesso idea di cinema in progress, tra l’happening situazionista e l’improvvisazione continua, ri/scrittura cinematografica che respira, messa a punto nel corso di due anteprime (presentato soltanto come un work in progress, poco più che un canovaccio al festival di Cannes 2004, la versione definitiva è quella uscita in Cina in settembre e ora anche nelle sale italiane); uno strano oggetto, che Wong ha più volte smontato e rimontato; doveva essere un film di fantascienza e invece è di nuovo uno straordinario “discorso amoroso”, sull’impossibilità dell’amore: il De Profundis di tutte le love-stories del cinema. Tra novità e conferme tematiche e stilistiche, 2046 ripropone l’interesse del regista per la memoria/ricordo e sulla sua evanescenza. Il testo è tutto giocato sull’alternarsi dei diversi piani del presente/passato/futuro, che in certi momenti si intrecciano fino a rendersi indistinguibili. I risultati sono notevoli per la padronanza tecnica che rivela Wong: le inquadrature acquistano sempre più ricchezza di significati, le chiavi di lettura si moltiplicano, i diaframmi tra descrizione e interpretazione diventano sempre più sottili fino a che passato, presente e futuro, pensieri e azioni si fondono. Se Wong non ha smesso di giocare con il tempo nel labirintico 2046, fra ellissi audaci, tempi alterati e metaforici, sembra però aver trovato un ritmo intimo e interno, alla maniera della “Recherche” proustiana con tanto di riferimento ai tempi bergsoniani o a quelli di Joyce. Wong mette in moto un viaggio affinché la sua memoria e quella collettiva dei cinesi non si perda, tra obsolete canzoni che rimandano a tempi lontani e storie già consumate, avvolte da un’aura di déja-vu, può ora proiettarsi verso il futuro. 2046, è anche un film di fantascienza, ambientato nel fatidico anno in cui scadrà il periodo di autonomia finanziaria di Hong Kong dalla Cina, in un immaginario futuro con tanto di decòr à la Blade Runner. In particolare lo spunto di partenza di 2046 rimanda a un preciso film del regista, lo splendido mélo In the Mood of Love, dove l’amore tra un uomo e una donna non viene mai consumato. 2046 è un non-sequel di In the Mood of Love, c’è ancora il protagonista, il giornalista/scrittore Chow Mo-wan (Tony Leung) che perduta l’amata Su Li-zhen (Maggie Cheung) alla fine del film, lo ritroviamo nella Hong Kong del 1966 (anno grigio per Hong Kong sull’orlo di una guerra civile) nei panni del solitario scrittore, rinchiuso in una stanza d’albergo di fronte alla n. 2046, luogo dove sbocciò l’amore con Su Li-zhen, alle prese con la creazione di un romanzo, un racconto su un treno supersonico (il romanzo di fantascienza diventerà la cornice del film e andrà confondendosi con la sua vita e con la sua memoria) che, appunto nell’anno 2046 permette alle persone di ritrovare i loro ricordi perduti… Il racconto si muove lungo i binari del tempo, sull’onda dei ricordi del passato, ripercorrendo nel futuro le tappe di amori sconvolgenti. L’amore più volte citato, la mancata storia d’amore che ha marcato in maniera indelebile la vita di Chow è in qualche modo motore della vicenda narrata, ma non solo quello. 2046 è un film sulla necessità di ricordare il passato, concetto molto sentito da Wong, che ha bisogno di ricordare perché dentro quei ricordi c’è la sua stessa identità. E’ un film sulla memoria e sulla sua precarietà. Instabilità “ontologica” dell’amore e instabilità “culturale” dell’essere umano, in particolare del cinese della ex-colonia britannica, il cinese dell’emigrazione (2046 è l’anno che Hong Kong tornerà alla Cina, come ci ricorda più volte la voice-over di Chow, per questo motivo è anche l’inquadratura che chiude il film). La cronologia temporale viene spezzettata, mescolata e rielaborata (l’uso continuo dello step-printing, tecnica di montaggio che consiste nell’annullare alcuni fotogrammi, rimpiazzandoli con il fermo-immagine del fotogramma precedente, generando in tal modo un movimento sincopato, una sorta di alterazione del perpetuo fluire del tempo), secondo una partitura del tutto soggettiva, staccata dal normale “strem” cronologico. L’azione così procede a strappi e si lascia prendere dal gioco dei rimandi, così lo stesso numero, il 2046 del titolo, cabalisticamente vuol dire tante cose diverse: è il numero di una speciale camera d’albergo, è il titolo di un romanzo, è una data dal valore significativo per il futuro di Hong Kong. L’autore, al solito, non risparmia il mood musicale che contribuisce all’atmosfera di rimandi dell’opera: la colonna sonora mischia partiture originali di Umebayashi Shigeru, testi di Dean Martin, Nat King Cole, Xavier Cugat e brani presi in prestito da altri film (il truffautiano Georges Delerue, Peer Raben fedelissimo di Fassbinder, Zbigniew Preisner per Kieslowski). Un lavoro sul linguaggio che fa di 2046 quasi un meta-film, esempio di cinema referenziale. Ancora una volta, incantati dalla poetica di questo straordinario autore possiamo dire che 2046 è l’ennesima grande prova di un genio!
Articolo del
20/01/2005 -
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