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A luci accese e a lacrime trattenute c’è chi approfitta dei titoli di coda per riflettere, chi frettolosamente corre alla toilette e chi, appena entrato, si accorge dell’atmosfera densa di emozioni e prova a chiedere un’opinione su ciò che si appresta a vedere; una donna, né giovane né vecchia, risponde, suo malgrado sorridendo, “dolore, tanto dolore…”. Dolore, del fisico oltre che dello spirito, è ciò che rimane, “alla luce del sole”, dopo il finale del film; le gambe senza più passi di Pino Puglisi ti restano dentro, ti resta dentro il sorriso della sua gente, strappato alle mura senza fondamenta alle fogne a cielo aperto ai panni appesi a finestre cieche alle strade senza marciapiedi del rione Brancaccio, Palermo, Italia, Europa, a Occidente, a Nord di un mondo senza più frontiere. Il film - senza ritmi incalzanti, senza colpi di scena ma con i ritmi di una buona fiction – racconta appunto di quei sorrisi che hanno la profondità di una trasgressione, in una realtà che chiunque stenterebbe a credere italiana, se non fosse per i giornali che ne hanno parlato troppo. Ma i giornali si fermano alle notizie, non parlano delle persone, buone o cattive che siano. Non parlano dei para o sub mafiosi, che si accontentano di una baracca fatta di poche assi di legno e di un motorino sgangherato in cambio della loro strisciante lealtà alle regole “dell’onore”; non parlano dei mafiosi veri, che ostentano benevolenza e lusso, come dittatorucoli del quarto o quinto mondo; non parlano dei bambini, alla disperata ricerca di motivi per non rubare un autoradio; non parlano di chi - e del perché – non può non sottrarsi alle degradate regole non scritte del contesto sociale. “Alla luce del sole” ci racconta gli uomini, la forza e le debolezze, i sogni e le utopie, la meschinità e la grandezza, gli entusiasmi e le crisi profonde. Ci racconta di un sorriso da un altro mondo che vogliamo continuare a vedere e sentire nel fondo dei nostri occhi. Una volta lo chiamavamo cinema “civile”…
Articolo del
24/01/2005 -
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