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Il film è la storia di uno scontro fra la cultura occidentale dei diritti di libertà individuali e quella di una comunità di immigrati (i pakistani di Glasgow) che invece dà la priorità alla comunità e alla tradizione sull'individuo; una storia in cui il lieto fine dell'amore che trionfa coincide con la vittoria dell'occidente. E anche se detta così, la vicenda sembra scritta da Oriana Fallaci più che da Ken Loach, sta di fatto che stavolta il maestro del cinema politico di sinistra ha finito per produrre qualcosa di assai meno originale del solito, raccontandoci una storia la cui morale rischia di essere la stessa di quella enunciata da George W. Bush nell'invadere l'Iraq. Intendiamoci, non c'è nulla di sbagliato nel mettersi dalla parte dei due innamorati rispetto alle chiusure delle rispettive comunità di appartenenza; e una volta fatta questa scelta di campo, per dare un lieto fine al film è necessario che, assieme all'amore, trionfi lo stile di vita liberale proprio dell'occidente (per cui, giustamente, ognuno si sposa, se vuole, con chi vuole e non con chi la famiglia ha scelto per lui). Ma a parte il fatto che a Ken Loach riescono meglio i finali amari (come 'My name is Joe'); o quelli lieti di una letizia diversa dal modello hollywoodiano (come in 'Piovono pietre') il punto è che questo finale contraddice l'assunto che dovrebbe sorreggere il film: ossia che esiste un razzismo bianco ed uno colorato, esistono chiusure e grettezze fra gli uni e fra gli altri, esiste un'oppressione cattolica ed una musulmana. Alla fine, questo equilibrio (un po' posticcio) si rompe; e per far vincere l'amore deve vincere l'occidente. È questo schematismo di fondo che rende ultimamente freddo un film al quale manca proprio quella passione alla quale fa riferimento il titolo. O meglio, si dà per presupposto che, essendo una storia d'amore, la passione necessaria a commuoverci sia quella che lega i due innamorati. E invece, siccome Loach è un grande anche quando stecca, per un felice paradosso alla fine la figura più appassionata che ci racconta è proprio quella del padre di lui. Mentre infatti lei e lui restano personaggi statici che reagiscono in maniera scontata ad altrettanto scontate situazioni e che superano le differenze che li separano non perché si amano ma perché le considerano una cosa folcloristica (come nella scena, un po' ridicola, in cui seduti al bar confrontano le rispettive religioni come fosse uno scambio di figurine: l'Arcangelo Gabriele? Ce l'ho. Ama il prossimo tuo? Ce l'ho. La transustanziazione? Me manca!), quella del vecchio pachistano che costruisce con le sue mani la casa per suo figlio è una figura vera. È un uomo che, con tutte le sue chiusure e con tutta l'ambiguità dell'essere padre (la casa che costruisce è un po' un atto d'amore e un po' una prigione), mette in quello che fa una passione più solida di quella dei due amanti. Che sono solo protagonisti di una situazione standard da amore interinale all'occidentale; qualcosa che ha smesso da tempo di commuovere.
Articolo del
04/02/2005 -
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