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Da qualche anno a questa parte il fenomeno delle trasposizioni cinematografiche made in Usa di fumetti e videogame, sembra essere diventato una cartina di tornasole nella produzione statunitense dell’action-movie. Che già dagli anni Ottanta (venne inaugurato uno studio di produzione di cartoni animati sulla West Coast, dapprima portando l’Uomo Ragno e Hulk sul piccolo schermo, e poi aprendo la strada al debutto al cinema) la Marvel Comics detti legge in un campo dove ci si misura a suon di milioni di dollari, portando nuova linfa all’adattamento fumettistico, è un dato di fatto. La superdonna Elektra, nata dalla costola del fumetto Daredevil e poi protagonista di una serie spin-off tutta sua, si inserisce a pieno titolo all’interno dell’imperante filone cinecomics, continuando il sottogenere cinematografico spin-off “rosa”, già inaugurato da Catwoman di Pitof. Specularmente alla sua collega ”donnagatto”, Elektra diventata maggiorenne può finalmente camminare con le proprie gambe, permettendosi il lusso di un ruolo da protagonista tutto suo! L’avevamo lasciata più morta che viva nel 2003, nel deludente Daredevil di Mark Steven Johnson, inguainata in latex nero politically uncorrect, ora invece l’attrice indossa per il piacere scopico dei suoi fumettofili un costume rosso, filologicamente corretto rispetto ai comics da cui è tratto il personaggio. Elektra Natchios, è interpretata, come in Daredevil di Johnson, dall’icona supersexy Jennifer Garner, vincitrice del Globo d’Oro come miglior attrice della serie televisiva Alias. A ben vedere Sydney Bristol (Jennifer Garner in Alias) e Elektra Natchios hanno parecchio in comune, entrambe muoiono e resuscitano, killer dalla doppia vita sempre in bilico tra il Bene e il Male, talenti per le arti marziali e icone di una nuova femminilità. La premiata ditta Mister Marvel, alias Stan Lee, cartoonist di culto (dalla sua fertile immaginazione sono nati molti dei personaggi con i “megaproblemi” della Marvel), qui nelle vesti di produttore esecutivo, e la sua squadra di tecnici e creativi (una combriccola sempre più coesa, per rinnovare ancora una volta il sodalizio della factory con il mondo del cinema), hanno trasportato nella celluloide le pagine del fumetto Elektra, creatura violentissima nata dal genio di Frank Miller. A orchestrare il tutto c’è Rob Bowman già produttore e regista di punta di numerosi episodi della serie TV di science-fiction X-Files e della relativa versione cinematografica. Fin dalla bellissima inquadratura iniziale, il cinema della Marvel Comics si conferma ancora una volta aderente a una matrice autoreferenziale, il brand “Marvel” introdotto a caratteri cubitali dai titoli di testa mette subito in guardia lo spettatore circa la storia che sta per vedere. Allo stesso modo i fumetti in inchiostro nero che si propagano per poi scomparire su uno sfondo rosso fuoco annunciano una trama marveliana. C’est à dire il fumetto che diventa reale, sotto gli occhi del lettore/spettatore. Il linguaggio cinematografico cerca di riportare agli antichi splendori i comic-books degli anni Sessanta, il periodo che era noto come “l’età Marvel dei fumetti”, caratterizzato dalla creazione di nuovi supereroi e dal rinnovo di eroi del passato. Ma dopo l’exploit originale dei titoli di testa, il film cambia rotta. Il passaggio dalla cellulosa alla celluloide ci lascia con l’amaro in bocca, come spesso succede in questo filone, facendoci rimpiangere l’aura del testo cartaceo. Qui, manca uno statuto autoriale, ovvero quella grandeur presente invece nell’opera di un Sam Raimi (Spider-Man e Spider-Man 2) o di un talentuoso Bryan Singer (X-Men e X-Men 2), autori che sostengono un più profondo lavoro sul côtè visivo. Diciamo la verità: la regia non si serve delle possibilità elargite dal contesto irreale, dell’universo sopra le righe dei fumetti e della ipotetica valorizzazione data dalla tracimazione in un altro medium. Certo, per noi ci sarebbe voluto un utilizzo più concettuale e meno tradizionale dei contenuti dei cinefumetti. L’anima inquietante e misteriosa della Natchios, il suo background e i flashback che rimandavano alla sua infanzia, sono materiali lavorati troppo superficialmente dal profilmico. Si registra quindi, un lavoro appena competente e professionale, grazie anche all’appeal di una storia tutta al femminile; peccato per lo sguardo generico e astratto con cui sono affrontati gli argomenti di alcuni sottotesti (nella sceneggiatura a sei mani, figura tra l’altro, non in forma smagliante, anche Zak Penn, scriptwriter di X-Men 2) come la matrice femminista (un cast di donne con le unghie affilate) e omosessuale (scene programmatiche quelle dei baci saffici e letali della cattiva ultradark Typhoid, Natassia Malthe) sono sacrificate, di fatto, a un’estetica dal ritmo meccanico come quello di un videogame. Come sempre nei cinefumetti, le citazioni si sprecano. «Elektra, come la tragedia. I tuoi avevano il senso dell’umorismo!» annuncia un personaggio. Il film è anche un chiaro omaggio agli action-movie dell’Estremo Oriente, frutto di una pratica à la page che unisce spettacolarizzazione occidentale e coreografia orientale. Grossa citazione tarantiniana è il nodo della storia, il rapporto tra Stick, il maestro di arti marziali non vedente, il sensei e Elektra, l’allieva prediletta, esperta dei combattimenti con gli spadini sai dopo un lungo e faticoso apprendistato. «La morte non è poi così brutta» dichiara la donna killer Elektra; «e tu come lo sai?» gli risponde uno dei personaggi; «Sono già morta una volta…» dice ancora Elektra. Sono le prime parole pronunciate da Jennifer Garner nella pellicola di Bowman, e per un momento ci illudiamo che l’eroina della Marvel sia tornata davvero cattivissima come quella del suo creatore. Ma ciò che sta più a cuore al regista è che Elektra non è la solita pupa, buona o cattiva, bensì l’eroe e l’antieroe. Elektra è una donna che vive nella limitatezza del quotidiano, in cui a regolare l’agire non c’è più il dio, ma umane pulsioni, opposte e contrastanti. Il suo messaggio non è tanto nella storia, quanto proprio nel fatto che sia una donna protagonista di un film-fumetto, di solito reputato una cosa da maschi. La nostra supereroe, anzi antieroe, cerca spessore tra le mani del regista, si evolve, cambia look e registro stilistico, ma questo non basta, se le istanze che la messa in scena mette in moto finiscono col disperdere il senso che Rob Bowman ha cercato in tutti i modi di dare. Infatti, se da un lato si rilegge il fumetto Marvel attraverso le lenti pseudo-gotiche, abbandonando quel futuro ormai “vintage” immaginato nei ’60 - che mescolava panorami metropolitani nordamericani con elementi di riferimenti della cultura pop, tipico dei fumetti della metà del secolo scorso - dall’altro, sostituendolo con scenografie agresti en plein air, dal dark gotico si scivola facilmente nel territorio ibrido della paccotiglia fantasy. Il finale resta spalancato, «ci rivedremo» dice Elektra: annuncio di una seconda puntata? Di sicuro non bisognerà aspettare molto per vedere al cinema il prossimo supereroe.
Articolo del
10/02/2005 -
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