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Non è un bambino come tutti gli altri lo Howard Hughes al quale la mamma fa il bagno nella scena che apre "The Aviator", il film di Martin Scorsese che, in quasi tre ore, racconta vent'anni (dal 1927 al 1947) della vita di questo miliardario americano, erede di una fortuna fatta col petrolio che mette in gioco continuamente il proprio patrimonio per inseguire i propri sogni. Produttore e regista a Hollywood, pilota da record e progettista di aerei, eroe delle libertà economiche per aver contrastato, con la sua Twa, il tentativo della Pan Am di conquistare il monopolio del trasporto aereo grazie alle amicizie politiche, lo Howard Hughes di Scorsese è un personaggio molto americano, e molto diverso dal drogato, corrotto e corruttore oltre che psicopatico descritto in un paio di libri di James Ellroy, lo scrittore per il quale invece "l'America non è mai stata innocente". Mentre gli anni '50 e '60 raccontati da Ellroy (in "American Tabloid" e "Sei pezzi da mille") sono un periodo buio di intrecci criminali fra soldi, mafia e politica, il tutto coperto da un grande velo di ipocrisia, gli anni '20, '30 e '40 raccontati da Scorsese sono invece pieni di luce e di nuove frontiere sempre raggiunte e subito dimenticate per partire già verso la prossima sfida, che si tratti di girare un film diverso da tutti quelli girati prima, di far volare un aereo che sembra impossibile far volare, di un record di trasvolata o dell'amore di un'altra attrice. Eppure anche dietro a questa America ottimista e innocente, la cui immagine passa per gli occhioni e il sorriso di Leonardo Di Caprio, c'è un po' dell'America di cui ci parla Ellroy: il bambino che apre il film non eredita solo i soldi del papà e la spinta al "sempre di più" che gli permetteranno di fare tutto ciò che Scorsese racconta; da parte di madre eredita anche le fobie che lo trascinano verso l'oscurità, l'isolamento e il buio. E se l'ottimismo lo porta a infrangere continuamente il muro fra la realtà e il sogno, un tarlo lo spinge oltre il muro fra la realtà e la follia. Fino al punto in cui, come nella scena finale, follia e progresso finiscono per sovrapporsi in maniera inestricabile, allontanandosi assieme dalla realtà.
Articolo del
24/02/2005 -
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