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Quest’anno l’Academy durante la notte degli Oscar per la prima volta ha premiato sicuramente il film migliore: Million dollar Baby, 25esima opus da regista di Clint Eastwood, la 57esima da attore e la 10° da compositore (lo stesso Eastwood insieme al figlio Kyle ha personalmente confezionato la musica). Rispetto al passato l’Academy si è focalizzata su un cinema tendenzialmente meno rassicurante del solito, cioè su un film che risponde meno a esigenze di marketing. Infatti è una pellicola dagli accenti fortemente personali, il film più profondamente esistenziale, umanistico e politico. Per il 74enne cineasta si tratta del secondo film, dopo Gli spietati (1992), a vincere i due premi maggiori, miglior film e miglior regia, oltre ai premi assegnati ai due magnifici attori Morgan Freeman (miglior attore non protagonista) e Hilary Swank (miglior attrice protagonista). Grande maestro del cinema americano, forse il più sottovalutato come diceva Orson Welles alcuni anni fa, Eastwood conferma con questo testo una maturazione artistica, anche se, secondo chi scrive dal punto di vista stilistico Million dollar Baby è leggermente inferiore rispetto allo splendido Mystic River dello scorso anno. Dal grande affresco americano di Mystic River si passa a una messa in scena da kammerspiel, un film tutto girato in interni e stanze claustrofobiche, trascinando un panorama filmografico che ha lasciato tracce evidenti (ritornano tutti i motivi a lui cari: la solitudine dell’essere umano, il passato che ritorna, l’inadeguatezza umana rispetto al reale, l’ineluttabilità dei destini). Million dollar Baby rappresenta un distillato del cinema eastwoodiano, un suo modo di fare film. Un’idea di cinema che sottende un’idea del mondo, attraverso una continua re/visione su se stesso e sul suo personaggio. Il cavaliere solitario e errante, l’icona dei suoi western, l’anti/eroe che scompare all’orizzonte sul finale del film, presta qui la sua immagine a Frankie Gunn/ Clint Eastwood e specularmene anche lui è maturo per scomparire, uscirà senza far rumore dalla porta dell’ospedale, dopo aver compiuto in solitudine la sua difficile scelta. Anche lo script si nutre di cinema, perché ha in sé molti dialoghi dai divertentissimi echi leoniani e siegeliani dei suoi primi lavori che lo lanciarono come attore. Punto di partenza del film è uno dei racconti brevi de Lo sfidante di F.X. Toole, un irlandese, in passato allenatore di pugili. Il pugilato, tema centrale della storia può essere fuorviante, ci potrebbe far pensare per esempio a film come Toro scatenato o a Rocky in cui il contenuto sportivo è il motivo conduttore. Ma il mondo realistico del pugilato, il set/ring di una squallida palestra losangelina, seppur reso con estrema lucidità è solo un pretesto del film. Un’opera che si ri/propone come paradigma in cui le marche caratteristiche del cineasta Eastwood hanno una forte valenza simbolica, i sottotesti dipanati dalla sua regia sono molteplici, sancendo e ribadendo lo status quo di un preciso modo di fare cinema. Il film sportivo, della prima parte, lascia spazio a temi delicatissimi come il dramma dell’eutanasia. Nonostante il testo ricordi il recente Mare dentro di Amenábar, la scelta drammatica è affrontata qui in maniera più indiretta; il rapporto tra il Figlio e il Padre, o la sua figura vicaria, come il Maestro e l’Allievo, qui declinato nella sua duplice funzione Padre/Mastro e Figlio/Allievo, benché solo alla fine Frankie rivelerà che Mo cuishle, il soprannome gaelico che ha assegnato alla boxeur Maggie Fitzgerald/Hilary Swank, non significa altro che «mio tesoro, sangue del mio stesso sangue». Dal punto di vista stilistico, poi, il film è caratterizzato da classicità, movimenti di macchina molto tradizionali, una narrazione compatta e risolta, tanto è vero che a narrarci la storia è proprio la voice over dell’inserviente Scrap/Morgan Freeman, ovvero una figura retorica tradizionale. Infine anche la fabula è molto classicheggiante: Frankie è un vecchio allenatore di pugili in una palestra di cui è anche il proprietario, con i suoi dubbi, paure, insicurezze, non ha mai saputo quando è il momento di rischiare la faccia di qualcuno per farlo combattere con un titolo in palio, ed è intristito dalla vita; Scrap è il suo assistente ex pugile con un occhio solo e, Maggie è una ragazza devastata dalla vita, determinata a diventare un campione di pugilato ad imporsi nonostante sia troppo vecchia. Tre solitudini che s’incontrano, s’incrociano e si riconoscono. Quello dei tre personaggi è un percorso corrispondente, tutti allo stesso modo catartici. Ognuno di loro infatti si fonda sul riconoscimento del Sé attraverso quello dell’Altro, tutti sperimentati scopicamente nell’immaginario specchio cinematografico. Eastwood, ancora una volta ci mostra il buon cinema dell’”altra” Hollywood.
Articolo del
21/03/2005 -
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