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Il Führer (cioè la guida, o il “leader” come si preferisce dire oggi); i suo seguaci (divisi in “fedeli fino alla morte” e “traditori” man mano che la fine si avvicina); infine i “Mitläufer” quei collaboratori che, senza macchiarsi di colpe particolari, hanno dato fino all’ultimo momento il loro piccolo contributo al compiersi del grande crimine del nazismo: è questa la popolazione che, negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, abita nel bunker sotto terra dove Hitler si è rinchiuso per vivere la propria finale decadenza, mentre l’Armata Rossa arriva inesorabile da est. Nessun film sul nazismo è però possibile senza mostrare anche le vittime: che questa volta non sono gli ebrei (il cui annientamento è evocato ma non mostrato) ma sono tedesche come i carnefici: bambini mandati a far la guerra contro i carri armati sovietici; anziani e mutilati che vengono cercati e impiccati come traditori perché si nascondono per sfuggire all’ordine di combattere una guerra già persa; i sei figli di Goebbels, uccisi ad uno ad uno dalla loro stessa madre perché non potessero crescere in un mondo senza il nazionalsocialismo; e ancora ... Parlare dei tedeschi come vittime è una delle novità di questo film; che è un’opera nella quale è difficile, o forse semplicemente inutile, cercare di distinguere l’arte dalla ricostruzione storica, l’operazione culturale da quella che consiste nel farci vivere un’esperienza coinvolgente per due ore o poco più. “La caduta” ha infatti l’ambizione di essere parte, se non il vertice, di quella tendenza che in Germania sta usando il cinema per fare non della revisione storica più o meno felice (come accade da noi, ad esempio sulle foibe) ma per rimettere assieme, un pezzo alla volta, i brandelli di un’identità lacerata. Un'identità con la quale il peso del nazismo sembrava impedire qualsiasi rapporto sano, a causa di un vorace buco nero nella psicologia collettiva che lasciava i tedeschi avviluppati nel vortice dei sensi di colpa per la complicità (piccola o grande) mista a sudditanza che li aveva portati a seguire il loro "leader". Fino ad arrivare ad un passo dalla loro stessa distruzione finale, perché un popolo che perde la guerra, come Hilter stesso spiega, dimostra di essere debole e deve soccombere o sparire. È per questo che nella sua "caduta " Hitler vuole, coerentemente, trascinare con sé il popolo tedesco che, avendo fallito la conquista del mondo, "non merita lacrime"; per questo Hitler muore e uccide il suo popolo fino all'ultimo momento, e fin dopo la sua stessa morte per mano di chi continua ad obbedire ai suoi ordini; per questo era stato a lungo impossibile ai tedeschi guardarlo negli occhi, quegli occhi che li avevano ipnotizzati fin quasi a portarli, come nella fiaba del pifferaio magico, alla rovina definitiva. Ora questo film tira fuori Hitler, nel suo stesso corpo, e ne mostra a tutti la decadenza fisica e psichica. Il che spiega perché la sceneggiatura e l’interpretazione contino quasi più della regia (che peraltro riesce, attraverso una crescente lentezza dell’azione al posto del normale accelerarsi degli eventi, a rendere bene l’atmosfera di un crimine che si consuma fino all'ultima goccia). Mostrare Hitler, farne vedere la volontà di fare della propria decadenza la decadenza di tutta la Germania, è il grande merito dell’interpretazione di Bruno Ganz attraverso la quale il corpo del dittatore, quel corpo che egli aveva ordinato di far scomparire, viene in qualche modo riesumato per poterlo finalmente mostrare a tutti. Perché, guardandolo negli occhi tutti possano capire che dietro ad ogni Führer, ad ogni leader, ad ogni capo, c’è un uomo, e spesso un uomo infantile e piagnucoloso con i suoi "tutti mi hanno tradito" e "nessuno mi ha capito". Un uomo al quale, comunque, è sempre possibile disobbedire.
Articolo del
07/04/2005 -
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