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Fellini e Fabrizi: lo strano incontro di Luca Verdone - fratello del più noto Carlo Verdone, esperto documentarista - è un tuffo nel passato. Come suggerisce il titolo stesso, si ripercorrono le tappe fondamentali dell’altalenante amicizia tra Fellini e Fabrizi, riportando alla luce uno stralcio di storia del cinema italiano filtrato attraverso due figure emblematiche diverse ma anche complementari. Il docu-drama è stato presentato al Museo di Roma in occasione del centenario della nascita di Fabrizi. Un’altro documento visivo destinato a sprofondare nel limbo delle opere invisibili e maledette? Pur non andando nelle sale, forse lo potremmo ripescare tra i canali satellitari, trattandosi di una produzione RAI-International. Peccato, perché è un film che non merita l’oblio al quale è stato inopinatamente condannato. Meritava una menzione, non fosse altro per l’attenzione rivolta ad una pagina del nostro cinema che sarebbe andata perduta, la conferma, questa, che il cinema documentario non è solo denuncia, ma può fornire una forte testimonianza del passato. L’idea di partenza, per quanto non originalissima, può risultare interessante. Attraverso una selezione di frammenti e fotogrammi di film, testimonianze e interviste (tra cui quella di Massimo Fabrizi, figlio di Aldo, Carlo Delle Piane, Tullio Kezich, Mario Verdone), Verdone ci racconta delle oscillazioni dell’amicizia di Fabrizi e Fellini, preziosa testimonianza anche degli umori del cinema italiano. Fabrizi aveva una straordinaria popolarità, nonostante il cinema Neorealista colto e impegnato di quegli anni. Questo sommo attore ha incarnato vizi e virtù romane, quelle caratteristiche di indolenza e cattiveria che sono lo zoccolo duro dei sonetti del Belli (e che ritroveremo anche in Alberto Sordi). L’Urbe, la Roma antica, si rappresenta nel faccione rosso paonazzo e preoccupato sempre per la gastroenterite, diceva Fellini. Ma l’humus della romanità, non prescinde dalla malinconia, espressa nella maschera dell’attore. Il corpus centrale del documentario è innanzitutto la storia di un incontro, di un’amicizia e di brusche separazioni e fugaci ritorni. È nel giugno del 1939 che Fellini incontra Aldo Fabrizi al cinema Corso, durante la rappresentazione di una Rivista di varietà, in cui l’attore romano era la “vedette” principale (prima di debuttare nella grande tradizione dello spettacolo romano, Fabrizi lavorava con la mamma al banco di frutta e verdura di Campo dei Fiori). Fu un incontro illuminante e rivelatore per Fellini (mi viene in mente una dedica in una fotografia, in cui Fellini scrive “al padre, al maestro e al fidanzato: Aldo Fabrizi”) che voleva intervistarlo, a proposito di una inchiesta sugli attori di Varietà (secondo una vulgata invece i due si sarebbero conosciuti in una osteria mangiando due supplì). Tra loro nasce subito un’amicizia esclusiva e per un certo periodo il giovane riminese sarà anche ospite nella casa dell’attore romano. Fabrizi non mancherà di invitare Fellini a collaborare con lui, nella stesura dei copioni per il Varietà (disegna perfino i frontespizi che raccolgono i testi teatrali) e per il cinema. Scrive per Fabrizi tre film ambientati nelle strade romane, che preannunciano la grande stagione del Neorealismo e il suo mondo popolaresco: il soggetto di Avanti c’è posto di Mario Bonnard; poi collabora alla sceneggiatura de L’ultima carrozzella di Mario Mattoli; infine quella di Campo de’ Fiori di Mario Bonnard. Ma la grande amicizia si spezzerà durante la lavorazione di Roma città aperta di Roberti Rossellini, dove Fellini è presente come collaboratore alla sceneggiatura insieme a Sergio Amidei, mentre Fabrizi è Don Pietro il sacerdote torturato e fucilato dai tedeschi. Si riconcilieranno qualche anno più tardi in occasione di un evento triste, per poi separarsi definitivamente nel’68 quando Fabrizi scoprirà di non essere stato scelto nel cast di Fellini-Satyricon, nonostante Fellini avesse più volte dichiarato alla stampa che uno dei protagonisti doveva avere la faccia dell’attore romano. Un lavoro che fonde metalinguaggio e memoria, in grado di diventare occasione di indagine del cinema passato attraverso la passione di due autori che del cinema hanno fatto ragione di vita. Ai loro ricordi fanno eco le immagini d’archivio. Un tessuto complesso che vive attraverso le emozioni che le parole dei protagonisti, unite all’innumerevole materiale vintage presente nella pellicola, producono un effetto emozionale e di adesione del pubblico. Uno sguardo indietro, per cercare di recuperare e sdoganare fotogrammi di un patrimonio che troppo spesso rimane ostaggio di archivi o nicchie culturali. Il cinema documentario si sta lentamente affermando anche in questo territorio di recupero della storia e non esclusivamente come arte di denuncia, ci vengono in mente due documentari recensiti sempre in questo sito, I ragazzi della Panaria e Bellissime, che vanno in questa direzione.
Articolo del
13/05/2005 -
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