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Dopo il discusso Open Heart, Susanne Bier mette in scena un altro drammone psicologico familiare di provenienza scandinava. Una storia che a dire la verità lascia addosso una sensazione di dejà vu, di qualcosa di già visto e sentito. La fabula e il discorso non sorprendono, ma si rivela invece fondamentale la recitazione in presa diretta. Non desiderare la donna d’altri è un film fatto soprattutto di attori, un trio di trenta-quarantenni molto convincenti e con molto appeal (premio a San Sebastian alla coppia protagonista Ulrich Thomsen – quello di Festen – e Conie Nielsen – la quasi incestuosa Lucilla, sorella dell’imperatore Commodo, nemico del Gladiatore Russel Crowe). Le premesse del titolo italiano della pellicola (il titolo nostrano è senza ombra di dubbio più eloquente di Brothers) - baciato anche dalla fortuna al Sundance Festival - tradiscono le aspettative. Il plot si snoda attorno alla guerra in Afghanistan, in particolare ruota intorno alla violenza, forza devastatrice che all’improvviso può entrare in casa di chiunque, cambiandone e travolgendone l’esistenza. Quella di Michael - militare in carriera, capo famiglia, adorato dalla moglie Sarah e dalle due figlie, con una bella e nuova casa con giardino - è una famiglia danese borghese, come tante: non scandita da un’immagine di perfezione, ma neanche così disastrata. L’unico neo è suo fratello scapestrato Jannik, appena scarcerato dopo un tentativo di rapina andato a male. Ma sarà proprio Jannik, a stare vicino alla cognata e alle due bambine, quanto durante una missione in Afganistan, Michael, sarà creduto morto. Fra i due cognati poteva nascere qualcosa? Il dubbio esploderà quando, traumatizzato dalla prigionia, Michael ritorna… A convincere poco è l’atteggiamento della regista, l’humus cronachistico da cui scaturisce il dramma familiare, è un gioco sterile, che ha difficoltà a decollare. È centrale la partitura drammatica e la forza disgregatrice della guerra, ma questo sentimento negativo lo conosciamo già. Il film si trasforma in uno dei tanti prodotti medi paratelevisivi, che rincorrono la cronaca a tutti i costi. La Bier non riesce a far emergere la poesia e il lirismo, il senso dei migliori film Dogma 95, se non una irritante banalità, che si trasforma ben presto in noia per lo spettatore. Le sue ispirazioni dichiaratamente “dogmatiche”: presa diretta, macchina a mano, luci e scenografie naturelles, sono la prima traccia visibile, di una rigida estetica, che non sempre apporta nuova linfa e un po’ di freschezza ad un cinema sclerotizzato. A compromettere un apprezzamento totalmente positivo, è l’atteggiamento troppo ombelicale della Bier, ancorato alle dogmatiche regole del manifesto della coppia Von Trier e Vinterberg, che finiscono per celare l’appartenenza a un’industria commerciale. Ci sembra che nell’autrice viene meno l’assunto che stava alla base dei miglior film Dogma (chi scrive apprezza molto “un certo” cinema, almeno quello delle migliori intenzioni della scuola danese): il gesto di filmare non deve essere mera illustrazione della realtà. Quindi è abbastanza chiaro che non c’è niente di nuovo sul fronte del cinema di Von Trier & C.
Articolo del
18/05/2005 -
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