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A Roma, in un vecchio quartiere popolare del centro, c’è un cinema “off” dove se ti siedi in ultima fila, in comodissime poltrone “matrimoniali”, proprio sotto la cabina di proiezione, puoi sentire il sottile rumore della macchina che gira e quasi toccare con mano il magico fascio di luce che ne fuoriesce… La magia, ovviamente, presuppone che il film non abbondi in effetti speciali o in inseguimenti all’ultimo sangue… altrimenti l’inquinamento acustico rovina tutto… “Quando sei nato non puoi più nasconderti” è il film giusto per questo tipo di suggestioni: è un film che guarda dentro ai personaggi, soprattutto al piccolo protagonista, che ad appena tredici anni si trova a scoprire un mondo che è “altro” rispetto a quello in cui ha sempre vissuto e che prova istintivamente a sfidare nelle sue contorte regole. In quell’altro mondo conta di che colore hai la pelle, con quali mezzi ti muovi per il pianeta globalizzato e, soprattutto, devi imparare prestissimo a guardarti sempre con sospetto intorno, perché anche chi sembra volerti bene può in realtà costruirti una gabbia intorno e chiuderti dentro a chiave. L’immigrato è un pretesto, imposto dalle cronache di ogni giorno, per parlare di quell’epoca della vita in cui non ci sono barriere che non si possano abbattere, in cui per affetto siamo capaci di ogni slancio, di ogni follia. Se non fosse così, se il film volesse veramente parlare di immigrazione, non basterebbero le sequenze con pretese di realismo sin troppo stereotipate da sembrare finte, né i personaggi così sopra le righe da risultare stonati (i “traghettatori” di clandestini somigliano più al Gatto e la Volpe di Pinocchio che a due trafficanti di esseri umane. La fotografia incanta nelle sequenze in mare: immagini quasi documentaristiche nella loro bellezza e al contempo oniricamente evocative in quel chiarore di luna quasi innaturale. Rulli e Petraglia scrivono la sceneggiatura come da sempre sanno fare, cioè bene, Giordana delude forse un po’ rispetto alle sue prove precedenti, ma il film è comunque fruibile come racconto visivo, come apologo sulla vita e le sue età, così distanti l’una dall’altra che viene voglia di guardarsi alle spalle e recuperare i nostri io perduti. Alessio Boni è decisamente bravo e viene da chiedersi perché si veda così poco al cinema (lo ricordate in “La meglio gioventù?), Michela Cescon approfitta delle poche pose per sfoggiare la sua intensa espressività (la ricordate in “Primo amore”, magra all’inverosimile come quel copione esigeva?), Matteo Gadola alla sua prima prova non delude come quasi tutti i bambini che si trovano a fare cinema. Ultima menzione, d’onore, per la produzione, quella Cattleya che, nata da diverse costole Mediaset su un’idea del mitico Riccardo Tozzi, riesce, insieme alla Fandango, a mantenere vitale il nostro cinema italiano. Un breve riassunto delle imprese cinematografiche precedenti lo può confermare: Ovunque sei (M. Placido), Non ti muovere (S. Castelletto), Caterina va in città (P. Virzì), Io non ho paura (G. Salvatores), sino all’esordio con Un tè con Mussolini (F. Zeffirelli), che sbancò in America; in più, i film di Cristina Comencini di Liliana Cavani etc. . Scusate se è poco! P.S. A proposito, il titolo del film (mutuato dal romanzo che lo ha ispirato) è azzeccatissimo, una frase che dice più di tante chiacchiere pseudofilosofiche sulla vita!
Articolo del
26/05/2005 -
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