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Purtroppo fa ancora rabbia pensare che il pubblico occidentale è sempre l’ultimo a beneficiare delle magnifiche visioni degli autori dell’Est, e soprattutto in l’Italia raramente siamo riusciti a vedere - se non in qualche Festival o in home video - pellicole di buon livello, film diversi dalla solita paccottiglia orientale (commedie demenziali, kung-fu o action-movie) di più facile distribuzione. Così vincere il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2004 ha permesso a Old boy di essere esportato nelle sale d’Occidente, spianando la strada alla filmografia di un superbo autore sudcoreano, fiore all’occhiello insieme a Kim Ki-duk della cinematografia autoctona più innovativa. Old boy è il secondo capitolo, il cuore di un ipotetico trittico sul tema della vendetta, già inaugurato con Sympathy for Mr. Vengeance del 2002 (inedito nelle sale, ma presto in Dvd) che si concluderà con lo speculare Sympathy for Lady Vengeance, che Park sta finendo di girare. Storie sature di perversione e vendetta, dove la giustizia individuale viene rappresentata come necessità metafisica dell’uomo comune. “Ho fatto questi due film sul tema della vendetta per mettere in risalto l’inutilità di fondo e la gratuità di questo sentimento. La vendetta è una reazione folle, priva di alcuna logica e impossibilitata a condurre a una soluzione positiva: è solo uno spreco di energie..” racconta l’autore in un’intervista, durante la presentazione del film. L’opera ondeggia tra il dramma psicologico e il thriller, che vira il confine estremo dell’ultraviolenza e dell’eccesso. Uniti ad una certa ironia grottesca di stampo fumettistico (il film declinazione manga, è tratto proprio da un fumetto giapponese, scritto da Tsuchiya Garon e disegnato da Minesishi Nobuaki; una curiosità: il fumetto è diventato famoso solo dopo l’uscita del film). Un testo non lineare, che ostacola inizialmente allo spettatore una comprensione completa di ciò che sta realmente accadendo all’interno della storia (vedi l’uso di montaggi enigmatici). Oh Dae-su (Choi Min-Sik già protagonista di Ebbro di donne e di pittura di Im Kwon-taek) ci viene presentato mentre ubriaco, crea disordine in una stazione di polizia. Recuperato da un amico telefona alla figlia da una cabina telefonica e poi scompare nel nulla. Cambio di registro, si passa al thriller, il protagonista lo ritroviamo rinchiuso in un appartamento da alcuni anonimi sequestratori. Dopo 15 anni di assurda segregazione, passata a vedere la tv e a mangiare ravioli a vapore, viene liberato, da allora il suo motivo di vita sarà cercare delle risposte nel suo passato e la vendetta. Ma chi è stato e soprattutto perché? Inizia così un confronto a distanza con i suoi rapitori, destinato a divenire sempre più serrato e drammatico. Un film in qualche modo di nicchia, che risulterà sgradevole a molti, eppure corredato di un’estetica molto personale, che azzarda l’inconsueto con una libertà che sfiora l’anarchia: temi scabrosi e inquietanti, utilizzati senza pregiudizi. Park marca il limite dell’incubo, però rinuncia all’espediente confortante del fantastico, situando invece la narrazione e la messa in scena in un contesto di assoluto realismo. Le continue sevizie, le violenze gratuite (denti strappati uno ad uno, forbici che tagliano lingue, martellate, ecc.) che imbevono la sceneggiatura confermano questo registro stilistico all’insegna del reale. In primis, Park sottolinea questa attitudine del testo filmico attraverso la scena madre del polipo, mangiato vivo dal protagonista, con i tentacoli che entravano nel naso, senza nessun effetto speciale. L’autore lavora raffinato su visualità simboliche dell’immagine, sul suono e sulle atmosfere (non si può non citare la raffinatissima fotografia di Jeong Jeon-hun). Un’abilità di mettere in scena una storia così eccessiva e spiazzante tanto visivamente quanto concettualmente, con una raffinatezza assoluta di scelte formali. Senza aggiungere altro su come inserite nella fabula tutti gli enigmi, non volendo noi anticipare troppo di un film, si può dire però che nella prima parte si crea indubbiamente un’attesa, un interrogativo di angoscia che scoprirà una verità ben oltre l’immaginabile. L’ambiguità dell’ultima inquadratura rimane scolpita nella memoria dello spettatore anche dopo aver lasciato la sala: primissimo piano di Oh Dae-su che con gli occhi piange e con la bocca ride (stessa inquadratura che si vede all’inizio del film), mentre l’ultima battuta di Mido dice a Oh Dae-su “io ti amo” e la neve scende, coprendo e rimuovendo ogni cosa con il suo abbagliante candore. È forse un happy ending?
Articolo del
06/06/2005 -
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