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Che il new horror sia un genere à la page, è ormai un dato di fatto, ma spesso ciò non corrisponde a un rinnovamento delle proprie forme e di conseguenza a qualità di prodotto; lontano dai fasti di un Tobe Hooper prima maniera o di un Wes Craven, sono ben pochi i cineasti capaci di porsi su livelli superiori di discorso; esiguo il numero dei film che ci sorprendono e molti invece quelli che ci lasciano l’amaro in bocca. È facile perdersi nel mare magnum dei thriller-horror ripetitivi (remake, prequel e sequel) che vengono lanciati sul mercato globalizzato, basati su sceneggiature scopiazzate, che trasmigrano da un set di un continente all’altro, nel senso che cambiano gli attori, le facce, ma le storie più o meno si assomigliano tutte. Alta Tensione, pellicola transalpina prodotta da Luc Besson, fa capolino tra le sale italiane dopo due anni di stand by (la Lions Gate ha nel frattempo curato l’edizione statunitense), e si distingue per la visionarietà della messa in scena, la tensione e la paura che riesce a scaturire. Il desiderio di Alexandre Aja, ventisettenne figlio d’arte (il padre è Alexandre Arcady) al suo secondo lungometraggio, è quello di farci respirare un pò di paura, declinata in tutte le sue sfumature: il buio, l’ignoto, la claustrofobia, la tensione e pulsione omo/sessuale. Le due ragazze ci vengono subito presentate nella loro diversità. Alex disinibita e estroversa, Marie più mascolina (sembra non aver trovato ancora una sua identità sessuale, è un po’ un ragazzo mancato, anche iconicamente il suo fisico acerbo sembra trasmettere questa androginia e ambiguità, in primis il taglio di capelli da garçon). Il prologo introduce in una specie di sogno premonitore diviso in due microsequenze: la prima inquadra frammenti del corpo (piedi, mani, ecc.) di un essere umano rinchiuso, sembra, in un’asettica cella di un ospedale psichiatrico; nella seconda invece una donna in un bosco gravemente ferita, mai inquadrata frontalmente, fugge. L’azione si dipana in una sola notte, quasi in tempo reale. Marie/Cecile de France e Alex/Maiwenn Le Besco sono due ragazze che partono per un fine settimana, dirigendosi verso la casa di campagna dei genitori di Alex per prepararsi agli esami. Un serial killer irrompe nella notte e stermina padre, madre, figlioletto e cane, trascinando con sé Alex, mentre la sua amica si getta all’inseguimento on the road, il cui finale dovrebbe (nota bene l’uso del condizionale) lasciare di stucco lo spettatore… Questa breve sinossi ci introduce nel territorio dello slasher. Il film di Aja non si discosta dai prototipi di base, i tópoi del genere ci sono tutti: gioca con sottintesi moralistici che, nuovamente, castigano in primo luogo i pruriti sessuali giovanili (vedi l’irruzione della mostruosità proprio dopo la sequenza eloquente della masturbazione di Marie). Fin dall’inizio si intuisce che assisteremo ad un deja vu, ma il tutto è presentato nell’insieme con efficacia, grazie a una regia dinamica, a una profondità della messa in scena e a una suggestione cromatica (la morte giunge inaspettatamente, spesso molto colorata, in scene di nauseanti liquefazioni), che genera continuamente “l’alta tensione” del titolo allo spettatore. Pur nei limiti di un thriller-horror di intrattenimento - non c’è grande profondità concettuale del discorso - il film si dichiara per quello che è, un giochino ludico che omaggia l’epigonato (i movie maniacs, il cinema dei serial killer, gli assassini alla Leatherface; come non percepire la sequenza dell’inseguimento del Mostro con tanto di motosega e Marie un ossequio liberamente ispirato alla più leggendaria sequenza d’inseguimento quella fra Leatherface e Sally?; e cosa ci fa venire in mente il disastro alla stazione di servizio?) attraverso un escalation della suspense. D’altra parte è lo stesso autore a dichiarare il limite su cui il film si inscrive: “Alta Tensione non contiene giri di parole né è una parodia, è una storia spaventosa fatta per spaventare”. Alta Tensione è una riuscita e allettante sintesi dell’orrore giovanilistico (mutamenti elementari sui temi e personaggi classici orrorifici, riadattati al mondo giovanile e con ragazzi per protagonisti vittime/carnefici) degli anni ’80. Ritroviamo un controllato gusto per il gore e l’incontrollabile metamorfosi postmoderna del corpo, qui nel binomio omosessualità/mostruosità. Qualcuno ha detto qualche tempo fa a proposito del genere horror, che la figura principe del genere è il “mostro”, ovvero monstrum, che nel significato latino del termine non significa una persona ripugnante, ma semplicemente qualcosa di diverso, rispetto ad un’ipotetica normalità. Qui la diversità, nell’accezione di omosessualità, è vissuta come colpa. È su questo crinale ambiguo che il film parla del “doppio”, attraverso forme metaforiche. Pulsioni represse che possono risuscitare in qualsiasi momento e precipitare di fronte all’incursione dell’irrazionale. Sappiamo che l’orrore proprio per la sua natura psicologica si presta perfettamente allo scopo più di ogni altro genere. A favore Alta Tensione gioca senz’altro anche la scelta di questo soggetto ampiamente collaudato, ma non per questo meno affascinante, come può essere il tema del “doppio” con tutte le molteplici significazioni, che hanno una forte presa sull’immaginario collettivo non solo cinematografico. Affiorano così antiche pratiche di voyeurismo (la soggettiva esalta il voyeurismo) collegate e codificate al genere horror. Ecco allora che il punto di vista che dirige e indirizza la storia è quello di Marie. Attraverso i suoi occhi noi vediamo l’assassino, inizialmente solo suggerito (dettaglio di piedi e mani, spalle, labbra, la lama del rasoio), diventiamo protagonisti della scena trasformandoci in voyeur (il piacere/paura di spirare dalla finestra Alex che si fa la doccia; o assistere attraverso fessure/aperture alla carneficina). Anche la pista sonora e audio, vera e propria co-protagonista del film, dissemina indizi in maniera mai scontata, anzi fortemente motivata e aggiunge un surplus di senso al ritmo della suspense delle immagini, capace per esempio di coniugare la suggestione kitsch di Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri cantata dalle due protagoniste all’inquietante litania del prologo “non permetterò a nessuno di mettersi tra noi“. Senza anticipare altro su come inserire nella fabula tutti gli enigmi, non volendo rivelare troppo dell’epilogo del thriller, si può solo aggiungere che attraverso un ritmo narrativo e un climax ansiogeno Aja ci conduce con piglio a scoprire qualcosa di diverso rispetto alla stazza massiccia del villain…
Articolo del
13/06/2005 -
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