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…A Levante, strano film collettivo salentino, (prodotto "doc" dalla Provincia di Lecce, in collaborazione con il Consorzio dei Comuni della Grecia Salentina), coordinato da Edoardo Winspeare, scritto e diretto a più mani. Sono infatti sette le storie dirette da altrettanti sette novelli registi, che raccontano il territorio pugliese, catturando le emozioni, gli odori, i suoni, le impressioni e gli umori della gente che l’abitano, inaugurando un percorso e uno sguardo nuovo, con risultati più o meno validi. I registi (tutti pugliesi: Marcella Libonati, Luigi Filotico, Giovanni De Blasi, Gianluca Camerino, Carlo Michele Schirinzi, Alessandro Valenti, ad eccezione del toscano Stefano Chiodini, appassionato di cultura e tradizioni salentine) sono un intero gruppo generazionale – tutti al di sotto dei trenta anni – che fa il suo ingresso nel cinema: nelle varie storie si può individuare non uno sguardo unico ma senz’altro un comune sentire, con poetiche decisamente distanti, ma con comunione di intenti. Un’energia che ha unito linguaggi filmici diversi per raccontare una terra che recentemente è sbocciata, si è aperta, davanti alla macchina da presa, prendendo coscienza della sua specificità. Il progetto si è rivelato una vera e propria palestra di giovani affiancati da scrittori (Vito Bruno, Omar di Monopoli, Virginia Peluso, Antonella Gaeta, Livio Romano, Mauro Marino e Roberto Vetrugno) e da professionisti del cinema. Nel lavoro è coinvolta la Scuola Nazionale di Cinema di Roma che partecipa alla lavorazione fornendo un supporto professionale, attraverso gli allievi e i docenti del Centro Sperimentale (come Gianluca Arcopinto per la produzione, Bruno Pupparo per il suono, Luca Benedetti per il montaggio, Roberta Allegrini per la fotografia). Sembra che il desiderio di questi autori sia quello di allontanarci da tutti gli stereotipi, di liberarci da un’immagine obbligata di mafia, droga, corruzione. Il Sud è rappresentato come luogo dell’anima, spazio immaginifico di transiti emotivi, esistenziali e di esperienza. C’è dunque una linea di demarcazione che resiste a questo iper-iperrealismo cinetelevisivo che rincorre il Sud di oggi lungo i confini della cronaca, del giornalismo e della fiction tv, attraverso la costruzione presente di un "altrove immaginario", simbolo della rinascita creativa degli autori del Sud. Lo scenario salentino, proprio perché troppo caratterizzato come luogo, viene annullato, creando una sorta di astrazione. Il film ha una struttura a tratti lineare, c’è una continuità cronologica delle storie, anche se si succedono in un arco di tempo indefinito (lo spettatore ha la sensazione che siano passati soltanto pochi secondi tra una storia e l’altra), visto che non è scandito dal succedersi del giorno e della notte. Alla fine di ogni storia però un "flashback" spiega allo spettatore qualcosa di più. Il punto di vista che orienta la narrazione è quella di Fabrice, giovane fotografo francese, sbarcato a Otranto, subito catturato dal luogo, dai suoni e dai volti. In questo vagare tra le vie del paese, il suo sguardo incontra quello di Chiara e la insegue per tutto il film. Fabrice è presente in quasi tutte le scene e dove non è presente fisicamente lo è ugualmente, perchè l’apparizione in campo si percepisce sempre imminente. Spesso sembra narrare – quello che in gergo narratologico si dice – un regime di focalizzazione zero, cioè senza che ci sia un portatore di un punto di vista, poi improvvisamente Fabrice entra in scena: fisicamente come protagonista oppure rivela la sua presenza ai margini, come colui che guarda, che spia l’azione, un vero e proprio voyeur, che finisce poi per diventare protagonista. Entra in scena, ma allo stesso tempo non partecipa all’azione, limitandosi ad immortalarla con il teleobiettivo, con la sua Reflex: la macchina fotografica. Le pluristorie nascono proprio dalla sensibilità dello sguardo della sua macchina fotografica. Storie e personaggi che lo aiuteranno – o almeno dovrebbero! – a entrare nella dimensione più profonda del territorio, e che lo spettatore avrà l’illusione di conoscere e approfondire. Da una parte, però è come se questa opera restasse chiusa, rintanata in se stessa. Manca il pulsare della vita tra la terra, quella forza che ha quasi una consistenza materica. I registi sottolineano questa tensione conoscitiva, la volontà di comprendere la realtà attraverso il soggetto scopico di riferimento di tutto il film: Fabrice. La macchina fotografica Reflex ha valenza simbolica per il fotografo, è lo strumento che conserva una conoscenza oggettiva della realtà, non condizionata. La fotografia è lo stereotipo che permette di inchiodare i fatti. Allo stesso tempo però, i giovani autori pugliesi, attraverso il lavoro che compiono sulla cultura cinematografia (viene in mente non a caso il significato simbolico della fotografia in Blow-up e Professione: Reporter di Antonioni) compiono un serie di semplificazioni. La m.d.p. si identifica totalmente con lo sguardo di Fabrice, e in questo modo i vari autori sottolineano (a memoria di cinéphile) come il cinema non possa pretendere di descrivere la verità delle cose, come vorrebbe Fabrice, non può cogliere un evento come tale, ma può cogliere qualcosa che al massimo ha delle ripercussioni e delle risonanze tra i personaggi. Questa sorta di spaccato antropologico di alienazione (tutti gli episodi sono attraversati dal continuo senso di morte), sembrano dire gli AA.VV. del film, è un fenomeno radicale all’interno della società. Il film scorre tra alti e bassi, sogno ambizioso, così come le alterne vicende della nostra cinematografia.
Articolo del
18/07/2005 -
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