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Arrivato al Lido in occasione di Venezia 61 (2004), dove è stato presentato all’interno della sezione Orizzonti, Mysterious skin, è l’ultimo shockante lungometraggio del filmaker quarantacinquenne statunitense che ha alle spalle una fama di cattivo ragazzo: Gregg Araki. Do you remember Doom Generation, Ecstacy Generation, Splendor-Splendidi amori? Pellicole che gli hanno conferito lo status di autore di culto nel panorama dell’underground giovanile. In Mysterious skin, come in quasi tutte le sue esperienze cinematografiche, snocciola storie di ragazzi perduti con una vita ai margini, teenager con problemi e dilemmi esistenziali, sieropositività e la scoperta di una sessualità “altra”. Mysterious skin rivela quindi da subito la sua lunghezza d’onda e un ideale trait d’union con la precedente filmografia nichilista e disturbante, per intenderci un cinema non abitato dal “buon gusto”. Ma il mood di continuità tematica e stilistica con i lavori precedenti, è talmente evidente, che forse non è il caso di enfatizzarne la portata. Sceneggiato dallo stesso Araki, il film si lascia apprezzare per la sua visionarietà, è tratto da un dramma letterario omonimo di Scott Heim. La trama dipana una doppia storia di tra/formazione: il ragazzo di vita Neil/Joseph Gordon-Levitt e l’introverso e timido Brian/Brady Corbett. Si racconta la fine di un’età, attraverso la violenza, perché mette in scena la crescita di due amici - compagni di squadra di baseball -, il loro ingresso nel mondo degli adulti, nonostante se stessi. Il leitmotiv della perdita dell’innocenza segnerà le esistenze dei due protagonisti. È dunque nel passaggio dall’infanzia al mondo adulto che va letta la chiave narrativa e metaforica dell’epidermide, da cui il film è segnato a partire dal titolo. La pelle labile, fragile e misteriosa dei bambini è motivo del desiderio e della violenza sessuale, del depravato “coach”. Sia Neil che Brian perderanno l’innocenza degli anni verdi e subiranno la violenza del pedofilo allenatore. Il tema raggiunge la pienezza del senso nel finale, momento topico, cioè della scoperta della verità, dello scardinamento del simbolico da parte dei ragazzi. In tale contesto lo stile visionario e fantasioso acquisisce il valore essenziale, esso stesso diventa l’elemento che ci consegna la realtà e che dà movimento al film. L’autore pur votandosi alla violenza, ha spesso manifestato uno sguardo e una cifra personalissimi, per nulla ossessionato dall’immagine cronachistica. Un aspetto visivo marcato da creatività e immaginazione almeno sul piano percettivo. Per molti anni, Brian per dimenticare lo spettro della violenza subita, si costruisce un mondo di fantasia, crederà di essere stato rapito dagli alieni; mentre Neil, aspirante omosessuale, sogna e crede in un amore ricambiato con il proprio allenatore. L’immagine, al di là della violenza, conferma la sensibilità da antropologo e la poesia di Araki, che mette in un cantuccio il sensazionalismo, ed è qui che risiede probabilmente il vero punto di forza della pellicola, che assumendo sempre il punto di vista dei due protagonisti, ne condivide l’umanità, i sogni e il dolore. Il risultato è un film forte, risolto, con una piena consapevolezza registica e padronanza dei suoi mezzi.
Articolo del
29/07/2005 -
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