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C’è tutto, dentro “The Island”. C’è tutto quanto – in letteratura e nel cinema – possa dirsi connesso a due fondamentali e sempre affascinanti macroaree tematiche: da una parte ed in primo luogo quella del rapporto fra l’uomo e il tempo, con tutte le conseguenti macchinazioni – tecnoumanoidi - atte ad ingannarlo, sorpassarlo, eluderne il logorante flusso. Dall’altra, quello – tanto caro, per volare altissimi, a Michael Foucault – del potere, e della coercizione potestativa degli uomini su altri uomini. Tradotto: da “1984” di George Orwell a “Brave New World” e “The Island” (si, l’isola è linguisticamente la stessa ma non è la stessa) di Aldous Huxley, passando per “Blade Runner”, per l’insistente riferimento all’universo di Philip K. Dick e per le intuizioni di Ray Bradbury fino all’idealcarcere Panopticon di bentahmiana memoria. Nell’ultima produzione di Michael Bay (“Armageddon”, “Pearl harbour”) si assiste ad un sapiente – anzi: furbesco, con tutti e due gli occhi rivolti al serbatoio inconscio dei turbamenti umani – gioco di continui rimandi, citazioni, “omaggi” di ben più elevato rango. Prima erano androidi, per dirla con un slogan, ora sono cloni. Ma la sostanza cambia poco. Lincoln Six-Echo (un fumettistico Ewan McGregor) e Jordan Two-Delta (Scarlett Johansson) sono parte, assieme ad altre centinaia di persone, di una porzione di umanità scampata ad una terribile quanto criptica contaminazione che ha avuto luogo all’inizio del XXI secolo. E che ha eliminato ogni forma di vita oltre il vetro che separa i superstiti e delimita l’area protetta nella quale, per il loro benessere, sono costretti a vivere. Costantemente sotto il controllo dei supervisori ed impiegati in misteriose mansioni. L’unica speranza di questa umanità in provetta (!) è vincere la “lotteria” ed essere così estratti per ripopolare l’Isola, l’unica oasi di mondo rimasta intatta. I due, per quanto possibile (rispettando le ferree regole della prossimità), legano. E nel frattempo Lincoln comincia ad avere sogni farciti da reminescenze, echi ed immagini che lo stordiscono disorientandolo ma, al contempo, gli serviranno per mettere a fuoco dubbi, incertezze, incoerenze del luogo in cui vive. Inizieranno a saltar fuori tanti e pesanti “perché” che lo porteranno ad esplorare l’alveare incontaminato e candido in cui, in una sorta di totale ottundimento, vive. Fino a scoprire che tutto quello che lo circonda, persino l'Isola, unico miraggio motivazionale, è una menzogna, che tutti valgono meno di niente e sono morti già prima di nascere: sono infatti cloni “ordinati”, confezionati e realizzati per ricchi americani che vogliono allungarsi la vita pescando, quando necessario, un rene, un cuore o un braccio di scorta. Sono prodotti. Insieme, Lincoln e Jordan evadono allora alla scoperta di quello che dovrebbe essere l’inconcepibile, per loro: il mondo esterno. Attratti l’uno dall’altra e braccati, iniziano la ricerca dei loro “sponsor”, i loro committenti. Con, in testa, le categorie concettuali di due ragazzini di otto anni. L’originalità della pellicola è prossima allo zero assoluto: la prima parte (quella “bianca”, dal nitore della prigione sotterranea) è appunto “1984”, il film - quello si da non lasciarsi scappare - di Michael Redford. La seconda (quella “nera”, dall’asfalto della città) è molto più vicina alle fughe di “Ronin” piuttosto che a quelle di “Blade runner”, cui comunque guarda e attinge solo in variante cloni. Come se la parte apparentemente più “casinara” del film (quella della fuga) si fosse voluta incastonare fra due parentesi pseudo-filosofiche. Tuttavia il film colpisce davvero in fondo: anzitutto perché il lavoro di citazione e di tessitura è portato avanti con sapienza. E diventa quasi un gioco (parecchio stimolante) andare a ripescare simbolismi ed allusioni in un patchwork che però, alla fine, un fil-rouge lo trova. Poi perché il montaggio e la cura della fotografia sono assolutamente fantastiche: drogano. Ed è impossibile rivolgere la parola per più di due secondi alla propria vicina di poltrona. Infine perché Bay riesce a camminare su un crinale che, paradossalmente, lascia fuori le apocalittiche e ratzingeriane fantascienze sull’uso spregiudicato delle tecniche di manipolazione genetica. E, pur sottolineandone i pericoli e le più aberranti storture, preferisce soffermarsi a dipingere il lato umano dei “prodotti-cloni”: non tanto come vengono al mondo, quanto cosa sono e come sono una volta venuti al mondo. E’ stato un buon bricoleur, Bay e chi ha scritto la sceneggiatura (Alex Kurtzman e Roberto Orci: non a caso “Alias”, “Mission impossibile 3” e al lavoro per “The transformer”): hanno creato del nuovo sfruttando arnesi semiotici vecchi ma con l’esperienza del colossal (pomposo al punto giusto, anche grazie alle musiche di Jablonsky, scuola-Zimmer) e la mano del clip. Oltre a qualche idea – geniale ma edita, ormai – che da sempre ammalia l’uomo.
Articolo del
23/08/2005 -
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