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Fuori concorso nelle Giornate degli Autori - Venice Days un’opera prima girata e prodotta in Belgio: Parabola. Dietro la macchina da presa c’è il giovane esordiente Karim Ouelhaj, già assistente alla regia di Philippe Blasband nel film Un honnête commerçant. L’autore di origine marocchina ha alle spalle un background come aiuto-cameraman nella realizzazione di documentari, pubblicità e videoclip e un diploma in videografica all’Accademia di Belle Arti di Liège. Scritto, montato e musicato dallo stesso Ouelhaj, il film assume un punto di vista tutto al femminile, raccontando la storia e l’amicizia di tre donne senza futuro, i cui destini si incroceranno drammaticamente. La pellicola affronta attraverso uno schema semplicistico un argomento classico come l’amicizia, che in Ouelhaj è anche metafora del passaggio di responsabilità, la relazione privilegiata che opera trasformazioni (non è un caso che l’incontro tra le tre donne è il fulcro della costruzione/cambiamento del rapporto con l’”Altro”). Spietato e pesante come un macigno, l’autore fa il punto sulle tre storie, quella di Sarah, una prostituta, non per necessità, ma perché è un modo per guadagnare soldi alla svelta; Axelle, sua amica d’infanzia, che ritroverà accidentalmente; e poi la terza donna, Elena, una giovane incinta, abbandonata dal marito. Tre sensibilità femminili diverse, destinate a incontrarsi in un luogo-non luogo, in cui non c’è più opportunità di scampo di fronte alla insensatezza della realtà. Il titolo anticipa il senso del testo, perché forse sono loro la parabola che dà il titolo al film? Donne che non sono più persone, né figure umane, ma solo fantasmi. La ricerca di una possibile via di fuga non sarà il riscatto delle protagoniste, ma un viaggio nei più oscuri recessi di sé. Il destino non lascerà vie di scampo, e il regista fotografa le mostruose cicatrici che la violenza lascia, non solo sui corpi, ma soprattutto nell’anima delle sue protagoniste. Il film si apre così con una dichiarazione drammatica “Lo faccio per soldi” spiega Sarah al suo intervistatore; e ancora “ma il mio corpo è morto”, “l’unico potere che ho sui miei clienti è che loro pensano che io appartenga loro, quando, in realtà, nessuno mi ha mai posseduto”. Tra un salto e l’altro dello script, un intervistatore, che il pubblico non vedrà e non sentirà mai, riprende Sarah con la telecamera, che con alcuni diacronici flashback realizzati in bianco/nero, si racconta e/o ci racconta il “nulla”. La m.d.p. segue i personaggi, lasciandoli liberi di esplorarsi, fotografando i loro turbamenti e i loro impercettibili pensieri con un rigore stilistico e una luce in stile naturale, producendo quell’atmosfera che distingue il cinema scabro e asciutto del documentario. Esaltando la caratteristica della settima arte di far sembrare vero quello che in realtà non è o di far sembrare falso quello che è vero, il film alterna così sequenze a flashback in stile documentario (fotografia sporca e sgranata, macchina a mano) con le scene tipiche del filone videoclip (movimenti di macchina accelerati, slow-motion, colori modificati digitalmente). Il pubblico rimane risucchiato dalla vicenda, quello che colpisce è la crudezza e la brutalità del linguaggio cinematografico, che non rinuncia a prendere a pugni lo spettatore con scene che arrivano dritte allo stomaco, complice i movimenti di macchina sempre manuali e un montaggio troppo veloce, che rendono tutto ancora più angosciante (anche la musica dissonante contribuisce all’atmosfera raggelante dell’opera). L’intento dell’autore non è quello di costruire una “parabola” al femminile capace di turbare nel profondo le coscienze degli spettatori, ma quello invece, di disturbarne i loro sensi, attraverso una serie di insensate scene violente che non raccontano e aggiungono nulla. Azzardando, è facile scorgere un parallelismo con l’opera del provocatore austriaco Michael Haneke, crudele e violento nella rappresentazione del male. Ouelhaj spinge sull’acceleratore della violenza, lui stesso dichiara di essere un grande fan del cinema di Abel Ferrara e di Takeshi Kitano, però non gli interessa dare una spiegazione degli episodi cruenti che si susseguono nel film; i momenti aggressivi più importanti, per distanziarli, non sono mai esplicitamente esibiti, come per esempio l’uso costante del fuori campo nella messa in scena (vedi la sequenza clou che deflagra nell’episodio finale di sesso sadomaso). Parabola assai poco in linea con il cinema “ufficiale” frequenta a fatica un cinema sperimentale, mancando continuamente il bersaglio, non riesce ad avere quel grado di necessità che invece troviamo nell’”altro” cinema per esempio nel già sopra citato Haneke. Ouelhaj risponde si alle lacche hollywoodiane, sostituendo il fascino patinato l’essenzialità delle sequenze, alle parole dei dialoghi i silenzi, ai pieni della scena i vuoti, ma questo non basta per fare un film innovatore. L’autore esprime una sua idea di cinema avanguardizzandone la forma per far emergere temi e riflessioni, che purtroppo rimangono sepolti sotto eccessi e scorrettezze.
Articolo del
20/09/2005 -
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