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Trasportando in Francia, l’ambientazione londinese del racconto The Return di Joseph Conrad, Gabrielle è l’ennesimo viaggio di Patrice Chéreau nell’intimità di una coppia dopo Intimacy del 2001. L’autore transalpino torna a violare l’intimità delle relazioni con l’”Altro”, raccontando una storia di una coppia in crisi di marca borghese. Così, utilizzando un plot molto semplice, ambientato nella Parigi della Belle Époque, due coniugi benestanti, Jean/Pascal Greggory e Gabrielle/Isabelle Huppert, portano avanti una relazione priva di passione, che si nasconde dietro un’apparente normalità fatta di cene, di feste, di impegni mondani e di ipocrisie, luoghi comuni dell’alta società. Ma il tradimento è dietro l’angolo. Gabrielle arriva a scardinare regole e abitudini di vita, lasciando il marito; incapace però di andare fino in fondo, dopo qualche ora, lei ritornerà sui suoi passi. Il mondo chiuso, senza dubbi e problematiche di Jean si fa in mille pezzi di fronte l’adulterio. È nella casa/palazzo, luogo deputato borghese, universo pieno di regole e di rapporti falsi e convenzionali che scoppia questo algido mélo benpensante. L’ultimo lavoro di Chéreau, oltre che un grande studio di caratteri, è anche l’affresco di un’epoca e di una mentalità, per di più retta da un’interpretazione maiuscola di Hupert, che si è accontentata – si fa per dire – del Leone Speciale per il complesso dell’opera a Venezia ’62. Il rapporto di coppia rimane, comunque, al centro della sua poetica, Chéreau, è da sempre interessato a quei sottili meccanismi psicologici che stanno dietro alle relazioni tra i due sessi, in particolare, qui, ci troviamo di fronte alla passione e il senso di colpa che deflagrano attraverso la dicotomia convenzioni sociali/desideri individuali. I personaggi e il lavoro con gli attori sono sempre in primo piano, base irrinunciabile di un progetto introspettivo che punta a costruire prima psicologie e caratteri, e poi una storia forte e coerente. I corpi dei due protagonisti, collocati in lussuosi interni borghesi, sono lo specchio della falsità dei sentimenti tematizzati nel racconto. La messa in scena dell’ipocrisia borghese, il cinema l’ha molto spesso trattata come una questione di stile, si pensi allo stesso Bertolucci, anche qui, l’autore, confina in secondo piano lo schema puramente narrativo, trasformato di fatto a semplice canovaccio sulla crisi della famiglia borghese. Il pregio migliore dell’opera sta nell’algido e controllato ritmo con cui Chéreau, riesce ad avvoltolare le sue immagini, avanzando nella fabula senza che nulla o quasi accada fino al colpo di scena finale, degno della migliore tradizione francese eppure, al tempo stesso, del tutto personale e innovativo. In particolare sul piano estetico, l’opera conferma il valore di un regista che riesce a tracciare nuove forme all’interno della codificazione dei generi. Il melodramma rappresenta, una delle sfide più affascinanti della grammatica/sintassi della messa in scena cinematografica contemporanea. Brechtianamente, Chéreau, trasforma il momento apicale del dramma, a memoria dei melodrammi del cinema muto, così in una sequenza folgorante, di grande cinema, si vede, ma non si sente, la didascalia, della frase urlata da Jean, odiamo soltanto la musica che cresce, fino a totale assordimento. Il risultato finale è un Kammerspiel raffinatissimo, che ha dalla sua parte il merito di aver mostrato con una forma diversa, una storia apparentemente già vista.
Articolo del
30/09/2005 -
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