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Ti rimane a lungo impastato in bocca, questo “romanzo” criminale. Perché – giustappunto e per dirla subito senza troppi giri ipocriti – non è altro che un lungo ed annacquato fotoromanzo animato. Per carità: realizzato con un’attenzione al dettaglio, alla fotografia, alle sequenze più significative davvero encomiabile ed affascinante. E quindi due ore e mezzo passano e scorrono senza problema alcuno. Il punto è che non rimangono. Un po’ come i panini del McDonalds: rapiscono con i loro fortissimi e sleali sapori, per poi dare la nausea appena ingurgitati. L’ultimo lavoro di Michele Placido è messo su secondo le stretegie di una gigantesca e tripudiante fiction televisiva. Che ama travolgere lo spettatore con una slavina di mischiume fra vicende private e “vicende di piombo”. Non è un’accurata ricostruzione storica della banda che ha posseduto Roma col sangue per un bel po’ di anni, a cavallo fra i ’70 e gli ’80. Né una pellicola segnata da chissà quale intento di analisi sociologica o politica (come può essere “Piazza delle cinque lune” di Martinelli, per capirci). Nulla di tutto ciò. Nella riduzione che mette assieme la generazione di attori più promettente – ma a quando un vero capolavoro? – del cinema nostrano contemporaneo si scatena un attentissimo e spregiudicato lavoro che fa leva esclusivamente sulle caricature dei personaggi – manco a dirlo: malsana e però vincente abitudine fictioniana. Dando vita ad una sorta di sbarbata e pseudo-sanguinaria sfilata – la passerella, peraltro, è una Roma troppo cartonata - dei vari componenti caricando le loro magagne private di tutto il peso narrativo. Fondamentalmente: il Libanese-Favino, il Freddo-Rossi Stuart, il Dandi-Santamaria e il commissario Scialoja-Accorsi si muovono in un intreccio di vicende amorose, d’orgoglio, di vendette, di rotture e tradimenti. Intinte in un fiume di soldi, cocaina, prostituzione. Che però – e qui sta il primo, macroscopico buco del film – non ci si spiega da dove arrivino. Come “lavorasse” la banda della Magliana, secondo quale organizzazione, chi la supportasse oggettivamente, quale ruolo ebbe nelle più tragiche vicende della storia recente quali l’uccisione di Aldo Moro, di Mino Pecorelli, o nell’attentato bolognese del 1980. Fumo. Solo “placide” allusioni – peraltro già entrate nella comune convinzione -, vaghe indicazioni, stereotipati “grandi vecchi” che tirano le fila dall’alto. Non c’è una chiave di lettura, in “Romanzo criminale”. Non c’è coraggio. Non c’è chiarezza. Non c’è nemmeno mezzo cartello stradale che ti sussurri: “Secondo noi è così, la banda aveva questi supporti, agiva con le spalle coperte” e così via. C’era o non c’era certa parte dello Stato, dietro? Vista dal film, la banda della Magliana pare ridursi ad una scompaginata e caciarona cricca di sanguinari goduriosi pronti ad assaltarsi alle spalle. Ma – secondo buco macroscopico – non si illustra nemmeno la concretezza del gruppo di assassini nella sua strategia criminale: come lavorassero quotidianamente, come agissero, quale fosse la loro rete. Nulla. Pare che le vicende di vent’anni di intrighi e omicidi siano da riassumersi in un continuo leit-motiv incardinato su tre elementi: tradimento-regolamento di conti-cambio alla testa della banda. Senza che il Mondo e le sue tragedie – che pure Placido incastona all’interno del film – riescano a trovare un nesso accettabile con le vicende del gruppo. Quindi il film resta fermo, piantato come un pilastro. Non prende direzione alcuna: non fornisce una propria versione a quegli anni e a quei sotterfugi, a quella mafia romana. Non ne disegna una lettura cinematografica. Né tenta una lavoro realista, raccontandoci come andassero quotidianamente le vicende. Ci propina – e il discorso è confermato pure dalla suddivisione del film in tre parti, intitolate ciascuna col nome dei tre capi che si susseguirono alla testa della banda – una galleria colorita, a tratti anche rivoltante, ma sostanzialmente sterile di assassini, drogati, prostitute, agenti segreti, spacciatori, killer come in un lungo e sanguinoso serial tv. “Romanzo criminale” mette in film la fenomenologia della distruzione di una banda di criminali, senza chiarirci come quella banda sia nata e cresciuta e grazie a chi. Riducendosi ad un continuo susseguirsi di revolverate e coltellate. Quel che rimane è una buona fotografia e buoni costumi, un paio di discrete interpretazioni (Claudio Santamaria ed Elio Germano, eccellente in tre minuti di filmato) e un clima di pesantezza “piombata”. Poteva essere un capolavoro, un’opera che chiarisse anche ai più giovani come Roma abbia rischiato – e di brutto – per più di un decennio di veder sparire lo Stato buono. Per colpa di quello cattivo. E invece è venuto fuori uno “spara e fuggi” alla amatriciana un po’ appiccicoso, scontato e buono per cento sceneggiature diverse.
Articolo del
13/10/2005 -
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