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Non bussare alla mia porta – Don’t come knocking, ultimo capitolo americano del regista di Dusseldorf, perché oggi, dopo aver vissuto e lavorato per dieci anni in America, fa ritorno nella sua natia Germania. Wenders, che più di chiunque altro regista lavora sull’energia e l’appeal dei luoghi e sui legami che ne scaturiscono, ha voglia di rientrare in patria, per non mancare all’importante cambiamento che sta attraversando il popolo tedesco e, per voltare le spalle, dice, al provincialismo che grava sugli States. La pellicola è comunque un omaggio a quei luoghi. È uno sguardo romantico sulla fine di un amore, quello tra un’autore e il “suo” sogno Americano. L’immaginifico mito americano, che ha adottato, ospitato, nutrito e fatto crescere il suo sguardo in tutti questi anni. Perché Non bussare alla mia porta, è come dice Wenders stesso in una recente intervista: “È la mia dichiarazione d’amore ai panorami del West americano e a tutto ciò che ha sempre rappresentato per me”, “ma senza rabbia, nel modo più affettuoso e dolce di cui sono stato capace”. Un omaggio agli States che Wenders sente e ama, quelli che ritroviamo nei suoi film e nelle sue fotografie, perché l’autore tedesco è uno sperimentatore di linguaggi, oltre che regista e scrittore, è anche fotografo, la sua mostra fotografica “Pictures from the Surface of the Earth” sta facendo il giro del mondo, l’anno prossimo giungerà anche a Roma alle Scuderie del Quirinale. Non bussare alla mia porta è un’opera totalmente emotiva, che si confronta a viso aperto con i miti di un’America che ormai non c’è più, o quasi… Quella dei grandi territori desolati, delle strade metafisiche, delle insegne luminose, dei motel e delle stazioni di servizio, immagini che sembrano uscite dalla cornice dei quadri di un Edward Hopper, il pittore della Grande Depressione, maestro nel rappresentare il senso di malinconia e di solitudine delle grandi città. Wenders si appropria di questi topoi americani, rielaborandoli in maniera personale in un rutilante racconto esistenziale che elegia l’America e i suoi miti. In primis, si confronta con il western, un genere per antonomasia americano, ovvero il genere “principe” nel sistema dei generi americani, presentandoci un film meta-cinematografico, un film wester dentro un altro film. Il protagonista Howard Spence/Sam Shepard (autore anche della sceneggiatura come in Paris, Texas), è una vecchia star del cinema, che sta girando il suo ennesimo film western, dal titolo emblematico Il fantasma del West. Il personaggio di Howard in fondo è un tipo, modellato sul pattern del post-western, alla fine lo vediamo allontanarsi, non più solo e a cavallo, ma con l’assicuratore (Tim Roth), che lo condurrà con forza e con la sua automobile a finire il film. L’autore misurandosi all’interno del genere western, sviluppa una riflessione sull’immaginario epico americano ormai dissolto, e constata amaramente, che specularmene, anche il western è giunto in una fase crepuscolare. Un profilmico di scenari alla Hopper, di West alla John Ford e di musica. Tra i materiali che lavora il film, ci sono infatti anche delle bellissime musiche, che confermano l’importanza di Wenders data alla pista sonora. Fin dai film degli esordi e lungo tutta la sua carriera, la musica è stato un tema wendersiano ricorrente: da Buena Vista Social Club, a Lisbon Story, da Viel Passiert, al più recente The Soul of a Man. A ben vedere, si potrebbe parlare di Non bussare alla mia porta come di una summa di tutto il cinema di Wenders fino a oggi, perché ci sembra un opera molto intima e personale, percorsa da tutti i leitmotiv che hanno attraversato la sua filmografia. Come il tema del viaggio presente in molte sue pellicole: Alice nella città sta a quella sua meditazione sul viaggio come scoperta del vuoto interiore, come Lisbon Story sta al viaggio come conoscenza e arricchimento interiore. Anche qui, il protagonista Howard, si mette in viaggio dopo una nottata di eccessi, abbandona il set durante le riprese di un film, per rintracciare quella parte di sé che non ha mai coltivato. Trova asilo nella casa della sua vecchia madre, che non vede da più di trenta anni; viene a conoscenza di avere due figli (Earl e Sky) e, ritrova una sua vecchia fiamma, una cameriera che aveva dimenticato (Doreen/Jessica Lange). Una ricerca esistenziale che si muove per recuperare nuovi sguardi e visioni lontano dalle luci della città moderna, come già in Tokyo-ga (letteralmente viaggio a Tokyo) la m.d.p. che era alla ricerca delle tracce del cinema di Ozu, giunge alla conclusione di un cinema ormai scomparso. Ne emerge una toponomastica di testi e sottotesti, in cui il paesaggio di Non bussare alla mia porta diviene il paesaggio esistenziale nel quale è immersa la poetica di un autore.
Articolo del
18/10/2005 -
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