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Che ci siano certi film per i quali il legame col regista-autore-interprete-demiurgo costituisca conditio sine qua non per guadagnare un senso ed assumere un surplus di valore è assodato. Ma è un fenomeno che con Roberto Benigni accade in maniera pressoché inevitabile. E’ come se fra il comico (riduttivo definirlo tale, no?) e le sue pellicole nascesse un rapporto vampiresco, parassitario, tale che senza Benigni il film muore, è nullo. Perché è interamente edificato su di lui, sulla sua folle corporeità rinsecchita di cui fa esilarante sfoggio, antimodello dei nostri tempi, sulla sua parlata gremlotica, sui suoi messaggi – instancabili, continui, romantici nella perseveranza – alla Delicatezza e alla Speranza. Così è anche per “La tigre e la neve”: in superficie la messa in scena di una strampalata ed improbabile ma forte, più forte della morte, storia d’Amore. In profondità manifesto in colori pastello di come Roberto abbia filtrato attraverso i suoi instancabili recettori nervosi gli ultimi, sporchi anni della nostra Vita. Come al solito, quel che ne esce fuori è un irresistibile pastiche nel senso buono del termine: una costruzione che mette assieme gag assolutamente sopra la media – si ride puliti, con Benigni, e già solo questo è segno di grandezza – e messaggi spessi e pesanti sui cancri del nostro tempo. L’umorismo più tagliente che ci sia in circolazione, quindi, pieno di doppisensi, allusioni velatissime e meno, giochi di sguardi e indovinelli proposti a chi guarda, più che la comicità ripiegata in sé stessa. La trama la sanno tutti: Attilio di Giovanni è un poeta, docente all’università e perdutamente - da incoriciare le facce infantili di Benigni - innamorato di Vittoria, una scrittrice che segue ovunque vada. Quando lei, partita per Baghdad per trascorrere qualche giorno col poeta Fuad (Jean Reno, eccellente nell’incarnare quel dissidio profondo che tutti noi proviamo nella Contemporaneità), rimane vittima di un incidente nella capitale irachena, anche Attilio decide di raggiungerla per salvarla. E col tenerissimo e magniloquente piglio donchisciottesco che è quello di Roberto Benigni tutto, e certo non solo del singolo personaggio di Attilio, parte (e come parte!) alla volta di Baghdad. Dove, nella riproduzione di una città che è al contempo emblema, frutto e riassunto della ferita lancinante di cui sanguinano i nostri anni – beninteso: senza morti né bambini affamati né teste mozzate ma con la forza della scrittura – finirà, invulnerabile nella sua testardaggine, nelle situazioni più insensate e pasticciate. Dal check-point americano (“sono un poeta!”, e gli yankees: “è un poeta, è un poeta: che passi!”) al campo minato, dall’ospedale semidistrutto al bazar multietnico al ciabattino, Benigni monta in una sfavillante sequenza di quadri scenici la sua personale ottica sulla Modernità e sul dolore che i sentimenti contrastanti lasciano sgorgare: l’Amore per Vittoria, il Rispetto per l’amico-poeta Fuad, malato nell’anima, la Speranza e la Fiducia nella propria motivazione e caparbietà. Guardare un film di Roberto Benigni è davvero rinascere periodicamente: anche se c’è sempre la Braschi, anche se il leit-motiv è lui innamorato di lei, anche se il clima generale pare arcinoto. Anche se, come in “La tigre e la neve”, qualche passaggio scricchiola e dal surreale confina con l’ingiustificato. D’altronde s’è detto: senza di lui, il film cede di schianto. Ma stare al cinema davanti a Benigni è comunque cancellare il lato ombroso della Vita a favore del bright-side dell’Esistenza umana. E questa può anche essere una tautologia. Ma tutti viviamo di certezze e di punti fermi: fra questi, ci sono gli artisti che iniettano nelle nostre vene qualcosa di sensazionale, raro ed introvabile, nelle nostre teste conquistate dal cinismo: la Poesia. Troppo spesso gettata in un angolo, anche da chi fa cinema.
Articolo del
27/10/2005 -
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