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La rappresentazione della violenza è il filo rosso che ci guida nel cinema del toccante e spietato Haneke, l’autore del meraviglioso La pianista, che con Cachè – Niente da nascondere, presentato all’ultimo Festival di Cannes, si è meritatamente portato a casa il Premio alla miglior regia. Costruito narrativamente e esteticamente sulla falsariga del thriller (notevoli sono i punti di contatto con questo genere), Niente da nascondere è in realtà più complesso e stratificato di quel che sembra, un film che apre una riflessione sullo statuto delle immagini, sull’ambiguità e la molteplicità del loro senso “nascosto”, appunto cachè, come meglio spiegava il titolo originale. “Il giallo mi è servito come strumento per proporre un racconto morale” spiega il registra austriaco. La macchina da presa diviene, nelle sue mani da gelido chirurgo, un bisturi che viviseziona con sguardo distaccato la realtà, o meglio le realtà, lasciando invece allo spettatore la capacità di interrogarsi e di riflettere sulle immagini che appaiono sullo schermo cinematografico, sui monitor televisivi e quelle delle videocassette. Tutto il senso del film è condensato nell’iniziale long take, destabilizzante e stimolante per lo spettatore, che fin dai titoli di testa viene chiamato in gioco. Gli astanti assistono quindi a un lungo piano sequenza con macchina da presa fissa, che riprende per qualche minuto la facciata di un palazzo del centro storico parigino e la sua strada circostante, dove non accade nulla, vediamo solo i due protagonisti principali, che escono dalla loro abitazione: Georges /Daniel Auteuil, un giornalista che conduce una famosa trasmissione televisiva di libri e sua moglie Anne/Juliette Binoche. Contemporaneamente scorrono i titoli di testa, lettera per lettera, come fossero battuti da qualche tastiera di un computer, senza l’utilizzo della colonna sonora o di quella diegetica, fin qui tutto normale, anche se certe consuetudini filmiche vengono infrante dal registra, ma all’improvviso ci rendiamo conto che questa inquadratura iniziale altro non è che un’immagine elettronica. Attraverso la soggettiva di Anne e Georges, abbiamo una nuova percezione di ciò, vediamo le immagini che stanno guardando alla tv, quelle che saranno le prime di una lunga serie, prodotte da videocassette lasciate sull’uscio di casa, pixel elettronici che ci raccontano di una telecamera che, non si sa come e non si sa perché, riprende tutto quello che fa la coppia; immagini che trasformano la loro vita in un incubo, anche se non rivelano nulla di compromettente. Da ciò consegue il riaffiorare di un fantasma dal passato, il rimosso che riemerge prepotentemente dalla vita del protagonista: un torto che lui aveva fatto da bambino, a un suo coetaneo, figlio della famiglia algerina che viveva nella sua casa durante gli anni ’60. Si tratta di un rimosso privato, ma anche di un rimosso pubblico, perché il senso di colpa del protagonista si intreccia metaforicamente al conflitto franco-algerino degli anni ’60, attraverso gli spezzoni dei telegiornali delle manifestazioni parigine degli algerini represse nel sangue, documenti della realtà che si mescolano con i documenti della finzione della storia di Georges. “Tutti noi ci sentiamo colpevoli di qualcosa e siamo chiamati a fare i conti sia con un passato personale che nazionale“ dichiara ancora Haneke. Una visione critica quella dell’autore nei confronti della società e dell’uomo, attraverso delle pellicole dilanianti nella loro impressionante e folle limpidezza. Il suo discorso, anche se contiene i temi della violenza a lui cari, vira alla forza delle immagini e alla loro potenzialità. Per questo motivo l’ultimo piano sequenza, corrispettivo di quello di apertura del film, non fa che confermare il senso di Niente da nascondere: quella continua ricerca di significato di ciò che si vede, di cui lo spettatore attivo è chiamato continuamente ad interrogarsi.
Articolo del
31/10/2005 -
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