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Avete presente quei film che si muovono sul crinale – sottilissimo, assai rischioso pure – del “calco”? E cioè del film visto e rivisto nelle sue componenti fondamentali ma che, con pochi, azzeccati tocchi, svetta fra gli altri e – appunto perché si distingue fra tante altre produzioni della medesima pasta – convince. “L’amore non basta mai” è decisamente uno di questi: la trama è apparentemente nulla. Mia – la bellissima acqua-e-sapone Sofia Helin - torna nel suo paesino della campagna svedese, in Dalecarlia per il compleanno del vecchio papà. Lei, che a Stoccolma è iperimpegnata e ben pagata, donna autonoma schiacciasassi nel suo lavoro alla Nokia ma con un’anima tenera e rosea. Ritrova le due (esilaranti) sorelle, Eva la bacchettona e Gunilla la svampita, con rispettivo e ricco indotto di parenti ed amici. Dovrà muoversi – terreno per lei scivoloso, dal momento che non torna quasi mai a casa - a cavallo dei due classici mondi che convivono nelle grigie province di tutto il pianeta: quello dell’Apparenza e quello dell’Intimità. Che quasi sempre non collimano, dando origine a frizioni, contraddizioni, rotture e mezze verità quasi mai ricomponibili. Ma che prima o poi saltano fuori, travolgendo la meschinità – ma anche la solidità virtuale – di una vita costruita in virtù dell’imperativo: “se si viene a sapere, chissà cosa penserà la gente”. Ed è come se Mia arrivasse al momento giusto per vedere tutti i pezzi del complicato puzzle del suo paesino – e della (potenziale) vita che ha fermamente scelto di non avere - sparsi a terra, buttati lì alla rinfusa: lo stress della sorella, le disillusioni dell’altra, crisi matrimoniali, pesi enormi di chi come lei non ha avuto il coraggio di andarsene. Amori e odi, insomma. Nevrosi e segreti. Invidie ed incomprensioni sottili che tengono distanti le tre sorelle, l’una estranea all’altra. Insomma: la Vita nei suoi sotterfugi quotidiani. Oltre al fatto che ne scoprirà uno che riguarda lei, di segreto: è incinta. Per opera di un monello rasta dj figlio di papà con cui ha avuto un’infuatuazione discotecara. In sostanza: carino, gradevole ma già visto, eravate stati avvertiti. Tuttavia la pellicola ha almeno due peculiarità micidiali, che autorizzano anche a pensare ad un bell’Oscar per miglior film straniero (la Svezia ce lo porterà, al cospetto dell’Academy). E che, al di là di tutto, ne fanno prodotto superiore. Anzitutto, è una commedia come da noi non se ne sanno fare più. Da noi, commedia (per la massa) significa Vanzina, rutti, parolacce, schifezze, peti. No, e Dio ce ne scampi e liberi, dal nostro “pochismo” cinematografico. In Svezia, a quanto pare, le commedie fanno sorridere dopo trovate raffinate e taglienti (poi magari il Vanzina di turno ce l’hanno anche lassù). Quindi non è un film per tutti, e meglio così. Secondo: gli ingredienti sono intessuti attraverso una trama registica molto scarna, essenziale ma al contempo “facile” e rifinita, che non stanca l’occhio, che non esita a mostrarci colori metallici, sbattuti, grigi. Che non cerca l’effetto-Cartolina. Quindi anche un film onesto. E poi in fin dei conti è trasversale: non è un dramma semiserio, né una commedia semidrammatica. E’ una commedia, e pure un dramma e nonostante la mistura mantiene una struttura agilissima: un piccolo e luccicante ossimoro di film.
Articolo del
15/11/2005 -
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