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Un Maestro, con la emme maiuscola, non è quello che sforna un capolavoro dietro l’altro. Quello è un genio. Che, infatti, non fa scuola. Perché chiunque voglia seguirlo, il genio, sarebbe tacciato di spudorata emulazione. E destinato a precoce fallimento. Viceversa il Maestro tira fuori prodotti di grande stile, dignitosi anche nei casi più fiacchi. E che comunque insegnano – o ribadiscono – sempre qualcosa, fondando una propria “linea”. Pupi Avati è un Maestro. E il suo ultimo “La seconda notte di nozze”, se ce ne fosse stato ancora bisogno dopo quarant’anni, lo conferma abbondantemente. Proprio nel senso che è il suo “stile” a “salvare” una pellicola abbastanza deludente. Inciso: non sarà mica un caso che, da quando Avati si ostina a trarre film da libri che egli stesso compone, a risultare sempre più deludente sia proprio la fase-scrittura? Uno per tutti: “I cavalieri che fecero l’impresa”. Ad ogni modo: il film è in effetti deboluccio, bisogna essere onesti. Assai gradevole ma piuttosto povero e sostanzialmente incentrato sull’enormità attoriale di Antonio Albanese, un vero miracolo espressivo, forse l’ultima grande maschera italiana. Ma l’impianto di base - e cioè la sceneggiatura – rimane assai sfumato, senza (ribadiamo: escluso Albanese e un discreto Neri Marcorè) picchi di alcun tipo. La storia è presto detta: fenomenologia dell’attesa di un amore. Primo dopoguerra. Giordano – che in passato ha avuto problemi di mente (ma davvero, poi?) - vive con le vecchie zie in Puglia e da una vita rimpiange i teneri momenti dell’infanzia ed un amore inespresso per quella che sarebbe poi stata la moglie del fratello. Quando questa, in cerca di aiuto, si fa viva e, poco dopo, si precipita al Sud da Bologna – dove, senzatetto, era ridotta alla fame - trascinata dallo scapestrato figlio Nino, per Giordano la vita cambia. Una rivoluzione. In un guizzo di gioia e di Vita, dà uno scossone a quanto lo circonda prendendo le prime ed uniche grandi decisioni della sua esistenza. E dando prova di enorme coraggio e sconfinato Amore. E qui – tornando al lato polemico - entra in gioco il fattore-Maestro: nelle mani di qualcun altro “La seconda notte di nozze” sarebbe stato archiviato nella sezione “delusioni” della propria carriera. Anche perché la protagonista femminile, Katia Ricciarelli, non dà granché al film, pur non sfigurando. Piuttosto secca, anonima. Avati riesce invece a dare ad una sostanza piuttosto scarsa una forma genuina, lineare, classica nel senso pulito del termine. Forse l’unica maniera di incorniciare un’opera del genere. Di quella semplicità che fa da faro e da riferimento soprattutto in periodi come questi, quando il cinema non sa dove sta andando. E quindi - nei nostri miseri interessi di spettatori - in grado di riacciuffarti mentre di accasci sulla poltrona e, con un uncino, a recuperare la tua attenzione puntando sul delicato gusto estetico, su qualche venatura eroicomica e sull’immancabile sfizio di qualche ironico contrasto, su una fotografia di alto livello e su una struttura filmica, nel complesso, di spessore. Insomma, facendo del proprio marchio una garanzia, anche per un’opera (altrimenti) sottile sottile. Albanese fa il resto facendo de “La seconda notte di nozze” un film che alla fine – pensandoci bene - se ne frega un po’ di tutto e segue solo sé stesso, in un gioco di autoreferenzialità che vale l’attenzione perché cosparso di piccoli ma universali lezioni di regia. E di Sentimento.
Articolo del
23/11/2005 -
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