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“Come un arco, voglio vivere sempre in tensione finché non morirò…” Kim Ki-duk
L’arco – The Bow, dodicesimo lungometraggio di Kim Ki-duk, uno dei principali e indiscusso protagonista della nuova generazione della cinematografia coreana, forse il più vitale, ma sicuramente il più prolifico (quattro film in soli tre anni). Regista che si era dapprincipio dedicato alla pittura, per poi passare alla settima arte. Decisamente in versione sempre più allegorica, grottesca e poetica, proteso verso un ideale estetico, L’arco saccheggia spunti, stimoli e suggestioni a destra e a manca dalle precedenti opere dell’autore, in particolare porta al limite gli esiti di Ferro 3. La mazza da golf sta a Ferro 3 come l’arco sta in questa ultima pellicola dell’autore coreano. Oggetti che diventano metafore, zoccolo duro su cui si costruisce il film. È prima di tutto un cinema metaforico quello di Kim, la sua macchina da presa rivela sempre più uno sguardo simbolico e metafisico. L’arco di volta in volta è: strumento d’amore o musicale, oggetto per leggere il futuro o arma impropria. La pellicola, che in patria l’autore ha quasi rinunciato a farla uscire dai cinema, è stata presentata a Cannes 2005 nella sezione Un Certain Regard, esperimento low budget (il film è stato girato in soli 17 giorni!) che poggia su un’insolita ambientazione e si avvale come sempre, di alcune importanti trovate visive. Se l’apparato visivo è interessante si nota da parte di chi scrive, una mancanza di originalità del côté simbolico che ne deriva, ovvero un certo ripiegamento sulla sua poetica e un manierismo potremmo dire autoreferenziale se consideriamo nel complesso la sua filmografia. Un lavoro dove la sensibilità della regia, il valore dello sguardo, l’attenzione alla costruzione dell’inquadratura, non coincidono ad un’adeguata riflessione di senso. Così se certe soluzioni cromatiche, in particolare i rossi (delle labbra, degli oggetti, del sangue, ecc.) si stampano sullo schermo come materiali estetici efficienti ed efficaci, viceversa, ci sembra non particolarmente originale sul piano del significato e scontato nel suo sviluppo drammaturgico. E’ proprio nelle suggestioni offerte dall’ambientazione (l’intero set è costituito dal mare e da una vecchia barca da pesca) che Kim esplora il suo tema prediletto quello del sentimento e del rapporto con “l’altro”, con un dialogo ridotto all’osso, come in Bad Guy e in Ferro 3 dove i protagonisti sono quasi tutti muti. Nonostante alcune criticità, dovute sicuramente alla velocità e all’urgenza del tournage, il punto di partenza è comunque molto interessante. Kim filma la storia di una ragazza di sedici anni (Han Yeo-reum già protagonista de La Samaritana) e un uomo di sessant’anni che vivono insieme su una barca in mare aperto da circa dieci anni. Lei non conosce il mondo, è stata trovata e cresciuta dal vecchio, e lui aspetta che la ragazza compia 17 anni, il raggiungimento della maggiore età per sposarla. Nel frattempo alcuni occasionali pescatori arrivano dalla terra ferma sulla barca per pescare, e alcune volte si fanno leggere il futuro in una maniera molto anomala: la ragazza si dondola su un altalena davanti alla fiancata della barca, dove è dipinto un Buddha, mentre il vecchio scocca le frecce che sfiorano la ragazza e trafiggono l’immagine religiosa, dando così un responso ai pescatori che glielo chiedono; ma un giorno tra i pescatori c’è anche un ragazzo che… La relazione tra i tre protagonisti, aumenta e si evolve, non verbalmente ma significativamente. Ci imbattiamo di fronte a un’esperienza ai limiti, portata avanti però con meno coraggio rispetto la precedente filmografia, tutta questa carica visiva deflagra nell’ultima parte del film, scomponendosi progressivamente, diventando troppo semplicistica nell’immaginario che riesce a ricreare dall’allegoria estrema.
Articolo del
28/11/2005 -
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