|
La vita è un soffio. Al cuore e di natura elettrica, magari, per dirla con Battiato. Questa la tesi, semplice semplice eppure tautologica, di “Crash”. Niente di nuovo, si dirà. Infatti: niente di nuovo. Ma che impatto, che costruzione, che interpretazioni. Che scrittura. Il mood del primo film – da regista – di Paul Haggis ti incarta il cuore con la stagnola e lo mette in forno. A cuocere. Perché l’intreccio è un gioco malefico e anche un pizzico narcisista: Haggis sbatte in un frullatore una manciata di (diverse) esistenze, di Vite. Un procuratore, un regista televisivo e le rispettive mogli. Due furfantelli e un investigatore di colore – con partner portoricana e madre esaurita. Due agenti di polizia: uno esaltato col padre sofferente di prostata, l’altro più ragionevole. Un commerciante arabo fobico e la sua famiglia. Un operaio ispanico, la sua bambina e la moglie. Insomma: acchiappa queste esistenze e le mescola, senza pietà, intessendole vicendevolmente. Ogni personaggio, in un modo o nell’altro, sfiora, tocca o devasta la vita di qualcun altro. E lo scopo è chiaro. Marchiare a fuoco una dimensione elementare eppure così trascurata, nella società moderna di cui una logora Los Angeles è emblema e epifenomeno al contempo: la Responsabilità che regola e determina la vita sociale. Ognuno è legato alla comunità dalle regole che è necessario seguire. Siamo nati per stare assieme, anche se sembriamo giorno dopo giorno sempre più barricati dietro “vetro e metallo”. Quando queste regole vengono violate – a prescindere dalle cause: Haggis è bravo a schivare la retorica buonista – s’innesca un processo-domino le cui conseguenze sono incalcolabili. Ma – e qui il regista fa un salto in più – anche la Responsabilità, a volte, non può nulla contro quel “soffio” gelido del destino. Che, in ultima istanza, mette il timbro su quanto facciamo (o quanto “ci capita”, a questo punto) durante i nostri minuti, le nostre giornate, le ore della nostra Vita. C’è quel grigiore pieno di mestizia di “Million dollar baby”, dentro. Disillusione e realismo. Ma anche la volontà di costruire un diabolico “gioco” delle parti per manipolare, Haggis novello demiurgo, le linee narrative di tante persone. C’è un film dal soggetto stracotto ma dalla sceneggiatura ricca come una cattedrale ortodossa. Girato senza esagerare: un po’ di camera a spalla, sequenze vivaci e rotte ma nei limiti della sopportazione, tanti primi e primissimi piani, fotografia omogeneizzante e, appunto, “grigioide”. Il valore aggiunto, però, lo fanno almeno tre interpretazioni: don Cheadle nei panni del detective Graham, a dir poco strepitoso. Cardine dell’intera pellicola, è il crocevia delle 36 ore che portano a cozzare l’un l’altro i personaggi. Matt Dillon, poi, l’attore più sottovalutato di Hollywood: perfetto. Infine Tandie Newton, simbolo e vittima di quel razzismo strisciante che tutti noi portiamo in seno, maledettamente difficile da estirpare e che è solo uno degli infiniti argomenti – che sono poi quelli che attengono la nostra esistenza: tutti – tagliati a fette da “Crash”. Che – né più, né meno – è una diapositiva – colorita, certo; ritoccata, come no; caricata – di una giornata qualunque in una qualunque metropoli del pianeta: quando siamo costretti ad uscire dai nostri gusci, finiamo spesso col distruggerli. E passiamo la vita a raccoglierne i pezzi.
Articolo del
02/12/2005 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|