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Ogni cosa è illuminata – Everything is illuminated, apprezzabile esordio dietro la macchina da presa per l’attore hollywoodiano Liev Schreiber (già bravo attore nei tre episodi di Scream di Wes Craven e in The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, presentato l’anno scorso a Venezia) che ha scelto di tradurre sullo schermo il romanzo autobiografico omonimo del giovanissimo ucraino Jonathab Safran Foer: il viaggio in Ucraina di uno studente ebreo americano per trovare la donna che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva salvato suo nonno dai nazisti, nascondendolo. Un’opera letteraria che ha colpito molto Schreiber perché gli ricorda tanto le sue origini, una storia che in realtà stava cominciando a scrivere lui stesso dopo la morte del nonno nel 1993. Nel viaggio-ricerca per ri/scoprire le proprie radici, dall’America all’Ucraina, tornando nella terra dei propri avi, percorrendo un itinerario a ritroso, il giovane americano protagonista Jonathan ha il volto dell’ex Frodo (Elijah Wood) de Il signore degli anelli. In questo viaggio di formazione viene aiutato dall’Heritage Tours, una scalcinata e improvvisata agenzia turistica autoctona, formata da una giovanissima guida (Eugene Hutze) con la passione del mito americano, da suo nonno un tassista finto non vedente (Boris Leskin) e dal suo cane Sammy Davis Junior Junior. I ricordi, che diventano automaticamente patrimonio culturale e tempo passato, sono continuamente sottoposti ad un lavorio ossessivo che non conosce sosta: una dentiera, un grillo, un pugno di terra, oggetti che di volta in volta vengono raccolti, catalogati e archiviati in buste di plastica da Jonathan, che ricompone così i frammenti di un mosaico organizzato secondo una sequenzialità emotiva. Schreiber coglie non solo l’essenza del testo di Foer, il viaggio, ma soprattutto l’intensa riflessione sul valore degli oggetti come segno di memoria. Questa è la parte più intensa del film, l’elogio delle virtù della memoria, oggetti che raccontano persone e luoghi; l’oggetto diventa così il mezzo della riscoperta di sé stessi e del proprio portato culturale. Un atipico road movie sul crinale della memoria, in una surreale ucraina postcomunista, tragica e ironica al tempo stesso, dove la storia delle avventure grottesche dello stravagante ebreo americano fa da cornice alla narrazione del dramma della Shoah. Un progetto che, nella preferenza di narrare un itinerario della “memoria”, intende anche coglierne le sue trasformazioni. E così Ogni cosa è illuminata non è solo un film sulla memoria come potrebbe sembrare dopo il suo esplicito incipit (la parete del collezionista Jonathan). Il primo lungometraggio di Liev Schreiber è anche un film sui cambiamenti storici, linguistici, antropologici, culturali (vedi le raffinatissime gag sulle incomprensioni della lingua, generazionali e culturali elaborate dai tre protagonisti) e sui segni che esso lascia. I segni evidenti (le lacrime, i sorrisi, ecc.) ma anche quelli invisibili che lasciano tracce nell’anima (per esempio quando i protagonisti arriveranno al prato dove sorgeva il villaggio di Trachimbrod abitato solo da ebrei e distrutto dai tedeschi). Un iter antropologico e catartico, attraverso le due anime della memoria, quella individuale (le proprie radici) e quella collettiva (gli ebrei perseguitati).
Articolo del
07/12/2005 -
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