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Parla di cose importanti questo “Zucker”, che arriva in Italia forte di un enorme successo in Germania; e che, confermando la caratteristica principale del cinema tedesco, parla della storia di questo paese attraverso un racconto particolare. Un racconto che vuole essere brillante (e qualche volta ci riesce), anche nell’affrontare un argomento di peso, come l’essere ebrei in Germania, sessant’anni dopo Auschwitz (e a Berlino, quindici anni dopo la caduta del muro). Il fatto di scegliere la commedia brillante per trattare temi di questo tipo, presentato come la grande novità del film, in realtà non è del tutto nuova; almeno se ci si ricorda di Ernst Lubitsch, ebreo berlinese poi trapiantato in America, e più di recente, di Woody Allen. Ma se il paragone è con questi modelli, “Zucker” ne esce oggettivamente ridimensionato. Non tanto nel divertimento (che alla fine, in qualche modo, non manca), quanto nel fatto di dire saper qualcosa, talvolta di importante, con tono leggero e mai conformista. A questa leggerezza, “Zucker” preferisce il ricorso sistematico ad un “politicamente non corretto” (ironie sugli ebrei, sugli omosessuali e quant’altro); che però sembra coprire, più che altro, il non voler andare in profondità negli argomenti trattati; quasi che in fondo si parlasse di cose che si possono non prendere sul serio. O, peggio, che il grande pubblico può essere autorizzato a non prendere sul serio perché a proporle è un regista che si chiama Levy; quasi che il fatto che sia un ebreo a ridere dell’essere ebrei autorizzasse una risata, altrimenti condannabile come antisemitismo. Al pari del “politicamente corretto”, anche questa risata può essere frutto di conformismo; e può, anziché liberare la nostra intelligenza, spingerci verso un atteggiamento di superficialità. Più o meno divertita, a seconda dei gusti.
Articolo del
05/12/2005 -
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