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Ma alla fine è Don Johnston a voler essere padre a tutti i costi, o è l’amico Winston a spingerlo in un improbabile quanto commovente viaggio alla ricerca di un suo “presunto” figlio annunciato un bel giorno da una lettera anonima? No, perché lo snodo del nuovo, graffiante film di Jim Jarmusch sta proprio qui: tanto è alienato dalla Vita il personaggio interpretato dall’immenso Bill Murray – una m a s c h e r a nel vero senso della parola – quanto sembra proprio questo “pretesto” del figlio a spingerlo (apparentemente recalcitrante) per le strade di un’odierna, assai deprimente e disincantata, America. Alla scoperta di banlieues statunitensi culturalmente secche, sterili, disilluse. Dove domina un teatrino dell’esistenza a dir poco spiazzante. Affatto traumatico, ma intinto in un grigiore da far cascare le braccia. E intorpidire la mente. Don Johnston è un ex- Don Giovanni (“per favore smettila con questa storia”, del don Giovanni, ovviamente), uno che “usa&getta” le donne da una vita. Ne ricorda a mala pena i nomi. Ha fatto soldi con un’imprecisata attività informatica ed è ormai una specie di insetto sigillato in una teca di vetro, asettico ad ogni comune stimolo sensoriale. Forse perché, a pensarci bene, in un certo senso superiore. Un giorno gli viene recapitata una lettera rosa scritta a macchina (tutto rosa, la busta e la carta, tranne l’inchiostro: rosso) che gli rivela come un suo figlio quasi ventenne stia girando l’America alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. E che – secondo la mittente – sarebbe proprio Don. Sotto la spinta del bislacco – ed anche un po’ inquietante – Winston, che gli organizza a puntino l’itinerario dopo aver condotto minuziose indagini sulle storie più “sostanziose” della sua vita amorosa, Don parte al fine di scoprire chi sia la madre dello pseudo-figlio, quindi la mittente della lettera. Messo in allerta sugli assurdi indizi da individuare: il rosa, anzitutto. Ed una macchina da scrivere. Nel giro di pochi giorni ritrova quattro donne del suo passato: gli elementi che cerca, li scova ovunque. Ognuna potrebbe essere la madre di suo figlio. La provocante e ancora prorompente Laura (poco più di un cammeo per un’eccitante Sharon Stone) che ha però una figlia, Lolita (simbologia di una gioventù sempre più suicidegirls-addicted?). La fragile ed enigmatica Dora (Frances Conroy), mestamente sposata con lo stereotipo fatto carne dell’americano medio. L’eclettica e parzialmente esaurita Carmen (Jessica Lange da applausi), comunicatrice fra uomo ed animali. Anch’ella epifenomeno di una realtà che perde il senno. O l’ambigua e affascinante – nonché disperatamente drammatica - Penny (Tilda Swinton) che il regista sembra effettivamente spingerci ad identificare più delle altre con la misteriosa mittente “rosa”. Il viaggio si chiude senza una risposta. Anzi: con un po’ di confusione in più. Sul piano strettamente letterale. Perché, in realtà, sul piano simbolico – e certo che almeno una lettura simbolica parziale è autorizzata e certo non arbitraria – tutto è molto limpido: non importa chi, come, quando abbia inviato la famigerata lettera. Che è un trigger, come direbbero i linguisti. Conta solo un fatto: l’uomo non è una monade. Non può vivere e nutrirsi solo di sé stesso. E’ zoon politikon, è società, è Amore, è Viaggio, è Passioni incalcolabili, è Interrelazione. E questo gli serve, per Vivere. Come l’aria che respira. Don Johnston, sfibrato da una vita povera di senso e ricca di carne, ha perso tutto questo, non pulsa più da tanto tempo: grazie a un viaggio strampalato che è una specie di autoanalisi sul passato e al contempo espiazione edulcorata dello stesso, tira le somme (cosa che non aveva mai avuto il coraggio di fare) e recupera il motivo della vita umana: la conservazione della specie. Capisce di non aver generato Futuro. E improvvisamente – quando era ormai rassegnato a trascorrere il resto della sua vita in tuta e ciabatte, sospirando su un passato movimentato ma sterile – scopre invece che forse qualcosa ha seminato. E lo vuole fortissimamente. Tanto che alla fine vede presunti figli ovunque. Jarmusch è davvero umile, nella sceneggiatura: non spara condanne, non giudica kafkianamente. Piuttosto, fa il Verga post-moderno, andando ad incassare in quattro episodi – uno per ogni donna – la paradossale diapositiva di un uomo stremato dalla banale, scintillante e perfetta quotidianità. Il sistema ad episodi è perfetto. Gli interpreti gente che fa cinema con l’anima. La musica una carezza che lega e tiene deste anche le (poche) sequenze deboli, fra il pop elegante dei Greenhornes e la delicatezza dell’etiope Mulatu Astatke. Il ritmo è pacato, moderato, riflessivo ma sempre furbo. Un’oasi nel marasma cinematografico odierno. Ma, soprattutto, il film è salvifico: c’è sempre un modo di riscattarsi. Di togliersi di torno la patina appiccicosa e grassa della banalità della quotidianità.
Articolo del
22/12/2005 -
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